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Il dono (di Adriana Comaschi)



Non sapeva neppure perché era venuta in chiesa. Per vecchia abitudine, forse, o meglio per il risorgere di lontani ricordi, legati alla sua prima giovinezza, ai tempi ormai irrimediabilmente passati. Comunque, ormai era là, stipata in una navata laterale, attendendo la fine della Messa, senza neppur poter vedere bene la pala del Mantegna, tornata da pochi anni a Verona dopo il restauro. 

Le note solenni dell’organo e il canto natalizio intonato dal coro risuonavano in San Zeno, ma non trovavano riscontro in lei. Tutt’al più, riusciva a distinguere con un certo fastidio qualche voce non perfettamente inquadrata con le altre. 

”Cosa pensavo di trovare, venendo fin qui!” pensò stizzosamente, mentre si faceva distrattamente il segno della Croce e raccoglieva poi i guanti e la borsetta, preparandosi a uscire. “Speriamo che almeno non nevichi, il cielo non prometteva niente di buono quando sono uscita”. 

Abitava poco distante dalla basilica, in una piccola strada vicino all'Adige, il vicolo Chiodo. 
Un appartamento in condominio, non molto grande, ma più che sufficiente per lei, che da molti anni ormai viveva sola. Niente marito, niente figli, niente famiglia. Lei e la sua collezione di miniature, di cui ormai era stanca. Una discreta pensione, una piccola rendita. Una noia infinita. Non dolore, non amarezza e neppure rimpianti, se non per la sua lontana infanzia, solo la monotonia di un giorno uguale all'altro, senza neppure il pungolo della necessità che l’avrebbe fatta sentire ancora viva. 

Stretta tra la folla, infastidita per la ressa, mentre sgomitava per riguadagnare l’uscita e poi sul sagrato, prestava orecchio senza volerlo ai saluti, agli auguri, ai sorrisi che gli altri si scambiavano. 

Nessuno si fermò per lei, nessuno le sorrise. 

Le sembrava di essere invisibile, a Natale come in tutti gli altri giorni. Unica differenza, il rintocco potente e festoso delle campane e il canto del coro “Adeste fideles” che riecheggiava ancora come una volta, quando, bambina, andava con la sua famiglia alla Messa di mezzanotte pregava Gesù Bambino perché esaudisse i suoi innocenti desideri infantili. 

Fu quel ricordo che la fermò bruscamente e la fece voltare verso l’altare maggiore, che ora, liberato da parte dei fedeli, splendeva di mille luci. Fu per quel ricordo che pregò confusamente il Dio nel quale non riusciva più a credere perché le donasse qualcosa, qualcosa che rendesse quella notte speciale anche per lei, che la facesse contenta. E mentre chiedeva non sapeva nemmeno cosa, per un attimo si sentì colma di fiducia e di speranza. Come la bambina di tanti anni fa. La bambina che era stata, e che non era più. 

Fu un attimo, poi si sorprese a ridere di se stessa, di quello stupido attimo di debolezza, e uscì decisamente dalla basilica, la testa dritta, senza guardare nessuno. 

Veloce, attraversò la piazza e si diresse al suo vicolo, lasciandosi alle spalle tutta quella gente festosa, i lumi e l’allegria. 

Il canto era cessato, e il suono delle campane si stava spegnendo. 

Si affrettò verso casa, ansiosa ormai di sfuggire, di dimenticare quella festa, quella letizia che non le apparteneva. 

“Nevicherà” brontolò tra sé e sé, alzando gli occhi al cielo dove neppure una stella rompeva l’oscurità. “ Ma perché mi è venuta questa stupida idea! Tutto quello che ne ricaverò saranno i piedi bagnati e un raffreddore”. 

Aveva ormai imboccato Vicolo Chiodo… buio completo. 

“Benone! L’illuminazione è saltata di nuovo” ringhiò a mezza voce. 

Non era una novità, ma di solito la stradina era sufficientemente rischiarata dall’ insegna dell’albergo Cavour, a pochi metri dal portone di casa sua . Quella notte, no: l’insegna era spenta e a stento riusciva a indovinarne la sagoma, e nessuna luce trapelava dalla porta a vetri dell’hotel. 

”Black out in tutto il vicolo” rimuginò, cominciando a frugare in borsetta alla ricerca delle chiavi, alle quali aveva appeso una piccola pila. 

Come se non bastasse, il nevischio che aveva cominciato a cadere pochi minuti prima si stava trasformando in una vera nevicata fitta. Neve asciutta e leggera che volteggiava nel cielo scuro per cadere poi a terra, sui tetti delle case,in piccole stelle candide che rapidamente si trasformavano in un sottile strato di fango ghiacciato. 

“Se continua così, domani sarà un problema muoversi. Figurarsi se a Natale verranno a liberare le strade!” Brontolando così aveva ripescato chiavi e pila e al suo fioco bagliore vide di essere ormai a pochi passi dall’ingresso della sua casa. “Meno male!” commentò, e impugnò la grossa chiave della porta esterna. 

Fu in quel momento che, alle sue spalle, si levò un gemito. 

Non un grido, né un pianto o un singhiozzo, ma un gemito lieve che pure la raggelò. Sembrava una richiesta di aiuto, ma senza speranza, come se colui che supplicava sapesse già di pregare invano. 

Si girò, e aguzzò lo sguardo nel buio reso ora anche più imperscrutabile per la neve che continuava a cadere sempre più fitta…Nulla. 

“Me lo sarò sognato. O forse sarà stato lo scricchiolio di un’imposta”. 

Girò decisamente le spalle e riguadagnò il portone. Stava per aprire, quando di nuovo si levò quel gemito, implorante, incalzante, disperato. Suo malgrado, rabbrividì. Non aveva paura, no, tuttavia… 

E mentre esitava, le chiavi in mano, il lamento si fece sentire per la terza volta. Più basso, più rauco, più disperato e incalzante. 

Si voltò e tornò sui suoi passi, la piccola torcia puntata a terra. Niente. O forse… 

Indirizzò meglio il fascio di luce e, quasi in risposta, intravide a pochi centimetri dal selciato due luminosi punti verdi che sembravano ammiccare verso di lei. 

“Un animale!” esclamò, sentendosi suo malgrado sollevata. Fece per allontanarsi, ma i due occhioni verdi la seguirono, mentre di nuovo si levava il debole lamento, ma questa volta un poco diverso. Interrogativo, fiducioso. 

Tornò a guardare e riuscì a scorgere tra i fiocchi di neve e le tenebre una piccola sagoma nera…un gattino di pochi mesi, che veniva incerto verso di lei, il musino alzato a fissarla. 

“Un cucciolo”. 

Considerò a disagio la bestiola che si era fermata proprio sui suoi piedi e continuava a guardarla. 

“ Finirà schiacciato sotto una macchina, o morirà di freddo. Sempre che non ci pensi prima qualche bastardo superstizioso, visto che è un gatto nero”. 

Il micio allungò una zampetta sul bordo della sua pelliccia e miagolò di nuovo, piano. 

La donna passò rapidamente in rivista tutto quello che sapeva, e non era molto. sulle associazioni che si occupavano di animali. 

“E poi è inutile anche pensarci, perché fino al 27, a essere ottimisti, non ce ne sarà una di aperta. No, non posso proprio farci niente”. 

Ma mentre pensava così, si era già chinata a raccogliere il gatto e si dirigeva verso casa, la bestiola in collo. 

“ Spero che tu sia in grado di mangiare, e che ti piaccia il pollo” disse a voce alta non appena entrata in cucina, deponendo il mucchietto di pelo nero sulla tavola, e rimase quasi stupita nel sentire la propria voce risuonare in quelle stanze sempre silenziose. 

Il gattino intanto stava facendo onore al pranzo improvvisato e, dopo aver divorato la fettina di pollo spezzettata e aver bevuto anche un po’ di latte, cominciò a ripulirsi. 

La donna lo osservò suo malgrado affascinata, poi allungò una mano per carezzare quella pelliccia che, sotto i decisi colpi di lingua del micio, stava ritornando lucida e morbida, ma si fermò bruscamente. Per un attimo considerò perplessa l’intenso ronzio che proveniva dall’animale. 

“Ha paura di me? O sta male?” si chiese, ma poi ricordò . “No! Fa le fusa”, esclamò a voce alta, ridendo come da tempo non le succedeva. 

E mentre lo portava nella sua camera e lo deponeva sul suo letto, dove il micino si seppellì subito nel piumino, l’informò “È proprio una bella musica, sai… Ecco, ti chiamerò Mozart”. 

Cominciò a prepararsi per andare a letto, pensando con piacere che non appena possibile sarebbe andata a comperare tutto il necessario per il suo gattino, e sentì le fusa aumentare d’intensità. 

Si voltò a guardarlo, sprofondato nell’imbottita, il musetto appena visibile, i grandi occhi verdi socchiusi, e le zampine tese in avanti a premere ritmicamente le coperte. 

“Sei proprio contento, eh?” lo apostrofò sorridendo, e si accorse che lo era anche lei, come da molto tempo non avveniva. 

Come aveva chiesto.