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Si torna alla casa della gatta bianca (capitolo 10)


Si erano fermati alla casetta di Zor, perché questa doveva dare alcuni ordini ai suoi dipendenti, prima di abbandonare per sempre quei luoghi. I fanciulli dei dintorni avevano già saputo di quella partenza ed erano venuti a frotte dalla Nana per supplicarla di rimanere.

— Chi avrà cura di noi quando sarai lontana? — le dicevano nel loro linguaggio infantile. — Chi ci lascerà cogliere le violette del prato, e ci eviterà le sgridate dei genitori, e ci crescerà buoni e saggi?
— Musina prenderà il mio posto, — rispondeva dolcemente Zor — Musina, la vostra compagna di giochi, a cui fiorisce sempre in cuore la primavera, alla quale la fata Gusmara ha conferito le stesse prerogative che ebbi da essa. Voi non perderete nel cambio, fanciulli miei; ed io vi benedirò sempre per tutte le gioie che mi avete date. Dimentichiamo quindi quanto vi ha di triste nella nostra separazione e facciamo conto di lasciarci per poco tempo.
— Oh, tornate, mammina Nana, tornate presto! —

E le si stringevano attorno baciandola, chiedendole un ricordo che rendesse meno dolorosa la sua assenza. Mentre Zor li contentava, distribuendo tanti piccoli doni che avrebbero avuto la virtù di mantenere quei fanciulli sulla retta via, Falco sedeva in disparte pieno di tristezza e di cattivo umore.  Topolina gli si avvicinò pian piano.

— Falco, — disse colla sua vocina dolce ed insinuante — Falco, fratello mio...
— Che vuoi, — chiese il giovinetto fissandola corrucciato.
— Voglio dirti che mi fa molto male di vederti così.
— Non è forse colpa tua? Non hai tu fatto di tutto per togliermi ciò che mi spettava?
— Tu non sai che cosa dici. Non ignori che avrei rinunziato a tutto per te.
— Parole, non altro che parole! — interruppe irritato Falco. — Ti comprendo benissimo. Tu sei sempre stata gelosa della predilezione che avevo per Tea; tu sapevi quale desiderio avevo di conquistarla; per questo hai fatto in modo di togliermela, seguendomi in questo viaggio che volevo intraprendere da solo; istigando con i tuoi modi ipocriti, con le tue false preghiere, la fata Gusmara ad occuparsi solo di te. Ma diventa pure la padrona del mondo: non mi avrai tuo schiavo; io ti disprezzo, e a tuo dispetto amerò Tea fino alla morte.

Topolina rimase silenziosa, calma. Il suo sguardo fissandosi sul compagno non esprimeva che compatimento.
Ella sapeva bene che col potere conferitole dalla Fata avrebbe piegato l'ingrato, ai suoi piedi. Nondimeno, Topolina non era fanciulla da voler conquistare in tal modo quel cuore a lei ribelle. Per quanto fosse provocante il contegno di Falco, risolse di non curarsene e di seguire la via che ormai la buon Fata le aveva tracciata.

— Ebbene partiamo, figliuoli, — disse Zor, avvicinandosi ad essi.
— Dove fate conto di recarvi? — chiese in tono brusco Falco.
— Rifaremo il viaggio di prima, — rispose Topolina con un tono tranquillo che contrastava stranamente coll'impeto di Falco. — Perché dobbiamo adempiere la missione affidataci.
— Parli per te, — soggiunse Falco. — Io non ho missioni da compiere.
— Allora rinunzia ad accompagnarci, — ribatté Topolina. — Ormai la strada per ritornare a casa la conosci, né vi sono più pericoli da affrontare. —

Falco si morse le labbra, mentre Zor sorrideva.

— Capisco, — disse con amarezza il giovanetto — adesso che hai il potere, dai un calcio al tuo compagno.
— Sei tu stesso che lo vuoi, perché il mio desiderio invece sarebbe di averti con me, a condividere ciò che sto per compiere.
— Partiamo dunque, figliuoli, — ripetè Zor. — E tu, Topolina, puoi ordinare un carro trionfale, come si addice ad una sovrana alla quale ormai tutti debbono obbedire.
— È vero, — rispose sorridendo Topolina — dimenticavo la mia parte. Adesso che me l'ha ricordata, desidero che il trionfo sia completo, perché sia più solenne omaggio alla buona fata Gusmara. —

Non aveva determinato il suo desiderio, che si trovò pronto un cocchio d'argento, tirato da dodici cavalli bianchi, montati da cavalieri con corazze ed elmi di puro argento. Al tempo stesso, Topolina si trovò vestita di una tunica uguale a quella della fata Gusmara e sui nerissimi capelli disciolti sentì posarsi un diadema, che era tutto di brillanti. Zor ebbe pure un ricchissimo abito di broccato d'oro e Falco uno splendido vestito scintillante di pietre preziose, con un elmo d'oro. Topolina sedette all'alto del cocchio, avendo più in basso alla sua destra Zor, alla sinistra Falco, la cui fisionomia si era alquanto rasserenata; ma si guardò bene dal dire una parola.

— Alla Valle del dolore, — ordinò Topolina.
— Che intendi fare? — chiese Falco.
— Voglio liberare tutti quegli sventurati che ebbero la sciagura di porre il piede in quel luogo.
— Vorrei servirmi meglio del potere — mormorò Falco.
— Sentiamo: che faresti? — chiese Zor.
— Comincerei a pensare a me, a soddisfare i miei desideri, prima di occuparmi del dolore degli altri.
— Così ragionano gli egoisti, — osservò Zor.
— Allora che varrebbe affaticarsi tanto, correre tanti pericoli per la conquista dei sette capelli d'oro, quando ottenutili, non servissero a me? — ribatté Falco.
— Se così pensassero quanti sono al potere, povera umanità! — disse Zor.

Intanto il cocchio percorreva le strade e la gente si scopriva il capo al passaggio di Topolina. Ella aveva un sorriso dolce per tutti. Una povera donna tese supplici verso lei le mani.

— Abbi pietà di me, mia bella Sovrana: io non ho pane da sfamare i miei bimbi.
— Tu avrai tutto ciò che ti occorre per una vita tranquilla; e ringraziane la buona fata Gusmara, — disse Topolina.

E quella povera madre si trovò padrona di una casa, di un campo, di una vigna ed ebbe le stanze piene di provvigioni. Ovunque Topolina passava era una benedizione: gli alberi intristiti rinverdivano; nei prati spuntavano i fiori; la gente sorrideva felice. Così giunsero alla Valle del dolore.
Quando la vecchia strega, che girava per la valle col suo bastone munito di un lume rosso, vide da lungi il cocchio, cominciò a tremare, ed alla comparsa di Topolina si curvò con la fronte al suolo.

— Che volete da me, potente Sovrana? — domandò umilmente. — Son qui per obbedirvi.
— Voglio che tutte le persone da te torturate, siano libere, che la Valle del dolore si cambi nella Valle della gioia, e che tu e papà Buricchio siate rinchiusi nel sotterraneo dove faceste tante vittime e non ne usciate mai più, ascoltando le grida di gioia di coloro che danzeranno sul vostro capo, benedicendo la buona fata Gusmara che mi ha mandata in loro soccorso. —

A un tratto la valle si sprofondò con un rumore terribile, ingoiando la strega e papà Buricchio; ed al posto di quella nera terra, si offrì agli sguardi di Falco, di Topolina e di Nana, un vaghissimo giardino, con graziosi baldacchini. I poveri torturati che per tanti anni avevano sofferto, attaccati alle macine, riprendevano il loro sembiante umano, si aggiravano felici per l'incantato giardino, inneggiando a Topolina e alla fata Gusmara.

II cocchio trionfale riprese la sua corsa. Topolina era commossa.

— Che sollievo poter operare il bene, venire in aiuto a gli infelici, punire i cattivi, — disse. — Io apprezzo il dono della Fata solo per questo.
— Avrei voluto attaccare papà Buricchio e la vecchia strega alle macine; avrei voluto che le punte di quei ferri li squarciassero eternamente, — esclamò Falco.
— Allora saresti stato crudele al pari di loro, — ribatté Topolina. — Trovandosi invece nella solitudine, pensando al male fatto, al castigo meritato, ascoltando le grida di gioia dei liberati, può darsi che il pentimento tocchi la loro anima, e che la Fata, nella sua immensa misericordia, pregata anche da me, li perdoni e li salvi. —

Falco alzò le spalle senza rispondere. Il cocchio intanto era giunto dinanzi alla palazzina della gatta bianca. Era mezzanotte, l'ora del convegno misterioso, della macabra baldoria, cui Falco aveva assistito. Quella notte la vittima già pronta, infilzata nello spiedo, era un povero giovinetto che aveva avuto la disgrazia di chiedere ospitalità nella palazzina. Nel gran salone, decorato con tutti gli splendori orientali, erano riunite le dame e i cavalieri per il lugubre convito, quando il gufo entrò sbattendo le ali, annunziando l'arrivo di Topolina, la conquistatrice dei sette capelli d'oro della fata Gusmara. Fu uno scompiglio generale: si udì grida di spavento; tutti procurarono di fuggire, ma non furono in tempo. Topolina era apparsa sulla porta, seguita da Nana e da Falco.

— Che nessuno si muova, — disse la giovinetta, stendendo il braccio munito del piccolo cerchio d'oro.

Dame e cavalieri rimasero immobili come statue.

— Come puoi tu, gatta bianca, — aggiunse Topolina avvicinandosi alla dama vestita di raso bianco — commettere tali iniquità verso coloro che chiedono un asilo, un ricovero nella tua casa? Non hai mai pensato che ci sarebbe una giustizia per gli sventurati che tu sacrifichi alla tua sete di sangue? E che i tuoi complici sarebbero puniti al pari di te? Tu non potesti avermi con mio fratello, perché la fata Gusmara ci ha protetti, e il giovine stesso che tu volevi arrostire, divorare, stanotte si erige a tuo giudice. In nome della possente fata Gusmara, che quel povero corpo, infilzato nello spiedo, riviva, riprenda la sua forma, la sua salute, e possa in cambio di quanto ha sofferto, conseguire quanto desidera.

Topolina aveva appena finito di parlare che lo spiedo di ferro che teneva infilzato il giovane corpo, ne uscì rompendosi in più pezzi e il giovinotto riaprì gli occhi, sorrise a Topolina, si alzò sano e salvo, balbettando:

— Dove sono? Mi pare di aver sofferto tanto, di aver sentito bruciare le mie carni, ed ora godo un vivo refrigerio, mi sembra di essere in paradiso. Forse ho sognato.
— Sì, hai sognato, — rispose Topolina. — Nondimeno, per tuo bene, ti consiglio di lasciare subito questo luogo. Dove sei tu diretto?
— Vado da mia madre che si trova inferma e non ha mezzi da sostentarsi. Io son l'unico suo appoggio.
— Ebbene, in cambio di ciò che ti hanno fatto soffrire, troverai tua madre guarita, e nell'armadio di casa, una valigia piena d'oro. —

Il giovine cadde sulle ginocchia.

— Dite il vero? E lo debbo a voi, Fata bella e potente? Che potrò dunque fare per sdebitarmi di tanta grazia?
— Pregare e benedire ogni giorno la fata Gusmara. Vai.

Il giovane era appena sparito, che Topolina si rivolse alle dame ed ai cavalieri.

— Rimpiango, — disse — di non aver potuto salvare tutte le altre vostre vittime; e per punirvi dei misfatti commessi, in nome della potente fata Gusmara, riprenderete la forma di gatti per non lasciarla mai più, errando per il mondo col rischio di seguire la sorte da voi fatta subire a tanti infelici: quella di essere infilzati in uno spiedo ed arrostiti. —

Falco e Zor non poterono astenersi dal ridere. Ma non risero gli altri, che si trovarono in un istante convertiti in gatti e fuggirono qua e là, miagolando spaventosamente. Il gufo era rimasto appollaiato sopra una mensola e con voce piagnolosa:

— Oh, possente Topolina, — disse — abbiate pietà di me! Io pure sono una vittima tratto in agguato dalla perfida gatta bianca che mi costringeva a servirla, ad ingannare gli incauti che chiedevano ospitalità, in questa casa.

— Tu pure seguivi i tuoi istinti cattivi, — disse Topolina. — Però, non dimentico che insegnasti a me ed a mio fratello la via per uscire; e con la speranza che vorrai cambiar vita, ti ordino di riprendere la tua forma d'uomo. —

Egli mandò un grido di gioia e ritornato sotto spoglie umane, pianse e promise di far penitenza dei delitti commessi per obbedire la sua padrona. Topolina non volle poi che di quella casa rimanesse pietra su pietra, ed al suo posto fece tosto erigere una cappella che aveva attiguo un convento, ove potevano trovar ricovero sicuro quanti viandanti passassero di là. Quindi, sentendo il bisogno di rifocillarsi e di riposare alquanto, con un semplice atto di desiderio vide apparire uno splendido palazzo in cui trovarono imbandita una sontuosa tavola e delle camere da letto ricchissime per riposarsi.

Topolina e Zor, dopo una fervida preghiera di ringraziamento alla fata Gusmara, si addormentarono felici.
Falco, invece, non potè chiudere occhio. La sua testa fantasticava: tutto ciò che vedeva lo stupiva, lo turbava, accrescendo la sua ira per non essere egli stesso in possesso del meraviglioso talismano di Topolina.

— Se provassi a toglierle il braccialetto, — pensò.

Quest'idea lo tormentò a lungo, finché si risolse a metterla in esecuzione. La camera da letto di Topolina era divisa dalla sua da un salotto; alcune portiere di raso ed oro nascondevano le aperture; tutte le stanze erano illuminate dalla luce di lampade velate. Attratto da una forza più potente della sua volontà, Falco, camminando in punta di piedi sul tappeto, alzò la portiera che dava accesso alla camera di Topolina trattenendo il respiro. Il silenzio era perfetto. La camera, tutta bianca come un fiocco di neve, era avvolta in una luce diafana, come luce di luna.
Falco si avvicinò al letto ove dormiva Topolina ed inginocchiatosi contemplò per alcuni minuti la dormiente.
Come era bella in quell'abbandono dolce del sonno, con quel visino così sereno che rifletteva tutta la purezza dell'anima dolce e soave!
C'era da esser commossi a quella vista, e Falco avrebbe dovuto rispettare quel sonno innocente, tranquillo.
Ma i suoi occhi furono affascinati dal braccialetto d'oro della Fata; il desiderio di possederlo si fece in lui più vibrato ed acuto.
La cosa doveva esser facile. Il braccio pendeva lungo il letto proprio dalla sua parte e bastava che egli facesse scivolare quel cerchio dal polso alla manina per poterlo estrarre. Già allungava la propria mano, quando la fanciulla si agitò pronunziando nel sonno queste parole:

— Falco, io ti darò quanto desideri: sii buono con me, che nulla chiedo; non voglio che la tua felicità. —

Falco si ritrasse indietro impallidendo. Come avrebbe avuto il coraggio di carpire il talismano della fanciulla che pensava soltanto a lui? Non l'avrebbe la fata Gusmara punito della sua audacia, della sua cattiveria? Ma rinunziando a quel braccialetto, rinunziava al potere; egli non avrebbe mai comandato: doveva tutto chiedere, attendere dalla generosità di Topolina.
Una viva lotta avvenne nell'animo suo. Finalmente, vinse il bene: il giovinetto si ritrasse nella sua camera, senza più guardare il braccialetto di Topolina; e non tardò anche egli ad addormentarsi profondamente.

Da "I sette capelli della fata Gusmara" di Carolina Invernizio 
tratto da: intratext.com