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Nel regno della Baldoria (capitolo 4)


Topolina e Falco si svegliarono sotto la tettoia di una vecchia fattoria. Essi si guardarono con sorpresa, ritrovandosi nei loro poveri cenci e vedendosi soli.

— Ho dunque sognato? — disse Falco.
— Sognato, che cosa? — chiese Topolina.
— Di essere stato con te nel regno del Capriccio, dapprima lusingati, festeggiati dalla Regina; poi, per l'imprudenza della marmotta da te ammaestrata, minacciati di prigione, quando un uccello meraviglioso venne in nostro aiuto, portandoci via.
— Sì, è proprio così, — disse Topolina — ma non è stato un sogno, perché ricordo precisamente lo stesso. Solo dal momento che mi sentii sollevata in aria, perdetti ogni conoscenza di ciò che mi succedeva.
— A me è accaduto lo stesso; tuttavia, quando ci siamo seduti sulla groppa dell'uccello indossavamo ricchi abiti, mentre ora abbiamo i soliti. —

La marmotta che aveva messo il suo musino fuori del corpetto di Topolina e stava ad ascoltare, interruppe il fanciullo.

— Volevi, — disse — che la bella regina del Capriccio, dopo essere stata schernita ed averci veduti sfuggire, ti regalasse anche gli abiti?
— Sei stata tu la cagione della collera della Regina, — gridò con dispetto Falco all'animaletto. — Ed è un peccato che non ti abbiano squartata!
— Cattivo ed ingrato! — disse Topolina al fratello, stringendosi teneramente al seno la marmotta. — Non badarci, Zor. Se tu non avessi letto nel pensiero della Sovrana, era finita anche per me e per Falco, né si potrebbe proseguire alla conquista dei sette capelli d'oro della fata Gusmara.
— Vorrei sapere chi ha mandato quell'uccello in nostro soccorso? — mormorò Falco, già pentito delle parole lasciate sfuggire contro la marmotta.
— Oh, di certo la buona Fata che io invocai in quell'istante, — rispose Topolina, non volendo parlare della penna del merlo.

Gli occhi di Falco lampeggiarono.

— Allora non abbiamo nulla da temere, se invocandola viene in nostro aiuto, — esclamò.
— Quest'aiuto però è necessario meritarlo, — osservò la marmotta. — E può darsi che un'altra volta non ti venga, anche se invocato. —

Falco schiuse le labbra ad un sorriso presuntuoso, come se avesse voluto dire che egli si sarebbe levato d'imbarazzo senza, l'aiuto di alcuno, ma si guardò bene di esprimere il suo pensiero ad alta voce. Disse invece:

— Io ho molta fame, e bisogna procurarsi da mangiare, perché non ho più la sacchetta delle provvigioni.
— Proviamo a bussare alla porta della fattoria, — consigliò Topolina. — Io chiederò di far ballare la mia marmotta, tu suonerai il flauto... Anzi, sarebbe meglio che tu cominciassi: forse comparirà qualcuno e non ci negheranno un po' di pane. —

Falco obbedì, si mise a suonare, e quasi tosto dalla fattoria sbucarono fuori, con grida di gioia, un branco di ragazzi seguiti da una donna. Gli uomini dovevano essere a lavorare nei campi.

— Oh, mamma, mamma! Sono i ciarlatani, — disse una bimba alta come Topolina.
— No, no, sono suonatori, — osservò un ragazzo, che voleva darsi l'aria di un ometto.
— Ma la piccina non suona... Guarda, guarda, ha una marmotta: la fa ballare! —

Così la donna come i fanciulli non ne potevano più dalle risa, mentre Falco continuava ad improvvisare ariette sul suo flauto e la marmotta a ballare ed a far riverenze. Finalmente si sentirono stanchi e la massaia se ne avvide.

— Via, ora basta! — gridò ai ragazzi. — Lasciateli in pace. E voi, aspettate, poverini, che vi darò qualche soldo.
— Se ci deste invece un pezzo di pane! — disse Topolina con la sua grazia abituale — abbiamo tanta fame...
— Perché non dirlo subito? Venite, venite, vi darò del pane e una buona scodella di latte.
— Grazie, grazie. —

Un momento dopo, Falco e Topolina sedevano su una panca, presso una tavola, in una gran cucina, e mangiavano avidamente una zuppa di latte. La marmotta ebbe la sua parte. I ragazzi facevano loro ressa attorno, malgrado le sgridate della mamma.

— Su, state buoni, lasciateli mangiare tranquilli, — diceva la massaia. — Di dove venite? — chiese quindi a Falco.
— Di molto lontano, — rispose il fanciullo.
— Tu sei alto, forte, robusto, puoi viaggiare a piedi, — soggiunse la massaia — ma quella bambina come può camminare tanto, lei?
— Io cammino più di lui, — disse Topolina — e non sono tanto bambina: ho compiuto i dieci anni. —

Tutti si misero a ridere.

— Possibile? — esclamò la massaia. — La mia Rosina non ne ha quattro ed è quasi più alta di te.
— Ma non parla così bene, — osservò il piccolo ometto che la contemplava estatico.
— Né saprebbe far ballare la marmotta — aggiunse un altro.
— Dove siete diretti? — domandò ancora la massaia.
— Vogliamo recarci al regno della Baldoria, dove, ci dicono, sarà facile trovare da vivere col nostro mestiere, — esclamò Falco. — È molto lontano di qui?
— No, rispose la massaia — ma per andarci dovrete attraversare una strada dirupata, angusta, fra macchie di spine. A metà poi della strada, vi è la casa del mago Crispetta.
— Chi è il mago Crispetta?
— Non lo conosco, ma vi consiglio di non chiedere il suo aiuto. A rivederci, ragazzi: tenete questo pane: potrà servirvi durante il viaggio.
— Grazie, buona donna, grazie. —

Si rimisero in cammino dalla parte indicata dalla massaia. La giornata era afosa; grossi nuvoloni si addensavano nel cielo e sembrava che un temporale fosse imminente. Tuttavia, Falco e Topolina  cominciarono a salire allegramente gli scoscesi dirupi, che dovevano condurli al regno della Baldoria. La zuppa di latte aveva rinforzato le loro membra, e li metteva di ottimo umore. Essi erano giunti quasi a metà strada, quando i lampi squarciarono le nubi e l'uragano scoppiò in tutta la sua violenza: l'acqua cadeva a dirotto, ed i due poveri fanciulli non sapevano dove trovare un riparo dalla pioggia e dai fulmini, allorché scorsero la casa del Mago.

— Ecco il nostro posto, la nostra salvezza, — esclamò Topolina. — Il mago Crispetta non vorrà ricusare di darci l'ospitalità.
— Ma noi non gliela chiederemo — protestò Falco — mi lascio piuttosto infradiciare.
— È questo tutto il tuo coraggio? — chiese beffardamente Topolina. — Ebbene; invece io gli chiederò un ricovero; son persuasissima che il Mago non vorrà farci del male.

E senza attendere risposta, bussò alla porta di casa, gridando:

— Fate la carità di accoglierci sotto il vostro tetto, buon Mago: siamo due poveri fanciulli smarriti. —

Un rumore simile allo scoppio di un tuono, si udì nell'interno della casa: la porta si spalancò ed una voce disse:

— Entrate e siate i benvenuti. —

I due fanciulli s'inoltrarono in un andito oscuro e quasi tosto la porta si chiuse e la stessa voce gridò:

— A destra. —

Falco e Topolina pervennero sulla soglia di una stanza color verde smeraldo, ove un uomo dalla testa di lupo, stava seduto a tavola, mangiando una lepre.

— Avanti, avanti, figliuoli! — gridò senza muoversi dal posto — il temporale vi ha spaventati, non è vero? E la pioggia vi ha bagnati come pulcini; ma qui troverete da asciugarvi e sarete al sicuro. Olà, Malot, accendi un po' di fuoco, e metti due posate per costoro! —

Un altro individuo, con la testa di cane, comparve. In pochi secondi, il fuoco venne acceso nel caminetto, e Falco e Topolina presero posto a tavola. Il mago Crispetta aveva alla sua destra la fanciulla che gli sorrideva senza timore.

— Tu non hai paura di me, piccina? — chiese allargando la sua enorme bocca da lupo, e toccandole la manina con la palma pelosa che pareva una zampa.
— Niente affatto, signor Mago, — rispose Topolina. — Perché dovrei aver paura? Voi non ci avrete certo accolti per recarci danno, ed io mi sento sicura qui come se fossi sotto il tetto di mio padre.
— Brava, piccina! Ecco come mi piacciono i ragazzi. Così, tu resterai presso di me. —

Topolina diede in una risata; poi, ricomponendosi:

— Ci resterei volentieri, — rispose — ma non posso, perché ho promesso di non abbandonare mio fratello.
— Egli rimarrà con te. —

Falco ebbe un gesto di paura; ma rimettendosi tosto, disse:

— Impossibile: io ho una missione da compiere che m'impedisce di fermarmi.
— Ebbene, andrai a compiere da solo la tua missione, e tua sorella ti aspetterà. —

Topolina sorrise di nuovo al Mago, obiettando:

— Consentirei, ripeto, con tutto il piacere; ma voi siete troppo giusto per farmi mancare di parola: piuttosto, ritornerò.
— Tu non ritornerai, quindi non ti lascerò partire. Appunto perché sono giusto, non voglio esporti ai pericoli ai quali andresti incontro se tu seguissi tuo fratello, cui in fondo non par vero di sbarazzarsi di te. —

Falco si fece rosso, poi pallidissimo: il pensiero della perdita di Topolina lo costernava. Certo aveva detto più volte, nei suoi momenti dì collera e d'impazienza, che poteva farne a meno, di lei: il Mago doveva saperlo. Ma ora, all'idea di trovarsi senza la sua sorellina, era preso da uno spavento angoscioso.

— Oh, non lo dite! — balbettò colle lacrime agli occhi. — Non mi separerò da Topolina. —

La fanciulla fu vivamente commossa da quella dichiarazione.

— Né io ti lascerò, — aggiunse — ed il mago Crispetta è troppo buono per non lasciarci partire insieme.
— Dove volete andare? —

Topolina credette bene di non mentire.

— Alla conquista dei sette capelli d'oro della fata Gusmara, — rispose.

Il Mago scoppiò in una sonora risata.

— E credi di riuscirvi, tu, povero moscerino, con un fratello che, quantunque voglia fingere un gran coraggio, trema al primo pericolo? Non sapete ciò che vi aspetta, tentando quella conquista: sentite, il meglio per voi è di restare con me. —

Topolina scosse il grazioso capo.

— Tu sei ostinata, — aggiunse il Mago — e non vi tratterrò. Bada, è la prima volta che mi mostro generoso; ma mi piace la tua franchezza e la fiducia che mi hai dimostrata. Andate, andate via subito, prima che abbia da pentirmi di non aver fatto di entrambi un boccone. —

I due fanciulli ascoltarono il consiglio: il temporale sembrava cessato e la strada che dovevano ancora percorrere era meno malagevole.

— Voi l'avete scampata bella! — disse la marmotta, sporgendo il suo musino, quando furono lontani dalla casa del Mago. — Merito tuo, Topolina. Vedi, io stessa non ho osato mostrarmi, perché non ero sicura che il mago Crispetta mi risparmiasse.

— Meglio sarebbe stato non chiedergli asilo! — osservò Falco, che, ormai rassicurato, riprendeva la sua spavalderia.

Nessuno gli rispose. Di mano in mano che andavano innanzi, sentivano dei profumi squisiti nell'aria. Finalmente, avanzandosi la notte, videro da lungi una città fantasticamente illuminata, e compresero che si avvicinavano al regno della Baldoria. Infatti erano appena giunti alla porta principale che videro dei grandi padiglioni con lunghe tavole imbandite, ricoperte di cibi e bevande, su cui le fiamme delle torce resinose, che l'aria della notte non poteva spegnere, gettavano lampi vivissimi di luce. A queste tavole sedevano individui di ogni sorta: vi erano uomini, donne, fanciulli; alcuni riccamente abbigliati, altri in misero stato, ma tutti mangiavano e bevevano allegramente; e tanto erano serviti i poveri che i ricchi. Spesso cozzavano i colmi bicchieri d'un commensale con l'altro, inneggiando alla generosità della regina Morgiana, la sovrana di quel regno. Falco e Topolina si erano fermati a guardare estatici quelle scena, quando un uomo che indossava una bizzarra divisa, si avvicinò a loro, dicendo a voce alta:

— Avanti, avanti, ragazzi; siate i benvenuti! Perché non vi avvicinate? Qui c'è da mangiare per tutti. Queste tavole le imbandisce la nostra Regina, non solo per quei del paese, ma per gli stranieri di passaggio.
— Sì, sì, fate loro largo, — gridarono diversi. — Viva la regina Morgiana, morte ai suoi nemici! —

Falco e Topolina furono posti fra un uomo in costume moresco ed una donna larga come una botte, che mangiava per sei e tracannava per dodici. Costei vedendo Topolina, si smascellava dalle risa.

— Siediti sopra la tavola, — esclamò — altrimenti non ci arriverai. Guardate, signori e signore, la bella e graziosa bambola! —

E con una delle sue manacce, sollevò senz'altro Topolina e la mise al posto di una zuppiera. Tutti applaudirono: solo Falco divenne rosso dalla vergogna; ma Topolina non si mostrò imbarazzata, lei. Sorrise a destra e a sinistra per ringraziare; poi, alzò la manina, come per chieder silenzio. Infatti, cessò come per incanto ogni rumore: si sospese di mangiare e di bere e tutti gli occhi si volsero a lei.

— Grazie della vostra accoglienza, — parlò là fanciulla con voce chiarissima e vibrata — e per mostrarvi quanto la gradisca, allorché avrò soddisfatto l'appetito, darò insieme a mio fratello, su questa stessa tavola, una rappresentazione gratuita. —

Una salva di applausi accolse queste parole, e non si udirono che esclamazioni di ammirazione.

— Brava!
— Benissimo!
— È una bambola straordinaria!
— Un fenomeno stupendo!
— Bisogna farla conoscere alla Regina!
— Il fratello è un bel ragazzo; ma ha l'aria di uno stupido! —

Quest'ultima osservazione giunse agli orecchi di Falco, che ebbe un accesso di collera violenta.

— Sarà sempre lei che mi metterà negli imbrogli, — diceva. — Meglio assai se fossi partito solo, così passavo inosservato fra questi regni e giungevo più presto presso la fata Gusmara.

— Lo vedi che hanno detto bene giudicandoti uno stupido, — sentì una voce sussurrargli all'orecchio. — Se Topolina non attirasse l'attenzione sopra di sé, o se tu fossi solo, a quest'ora saresti già caduto vinto, perché, nonostante il tuo orgoglio, non sei capace di prevedere i pericoli e di difendertene. —

Falco si era volto con impeto al compagno di tavola, credendo fosse lui che gli parlasse, ma l'uomo in costume moresco stava  rimpinzandosi silenziosamente. Topolina stessa, seduta al posto dove l'avevano messa, nella posa di una piccola cinese, mangiava con appetito un succulento manicaretto, che le avevano posto dinanzi, senza badare a lui. Falco contenne in silenzio la sua rabbia, apprestandosi anch'esso a mangiare. E dopo aver gustato di quei cibi squisiti e bevuto alcuni bicchieri di vino, si sentì trasportato dalla più viva allegria. Dimenticò i suoi rancori, cantò e rise come gli altri, inneggiando alla regina Morgiana. Ma i convitati tennero a mente la promessa di Topolina.

— Avanti la rappresentazione della bambola! Avanti! — gridarono da tutte le tavole.

Topolina si alzò, sorridendo a destra e a sinistra.

— Sono pronta, — disse quindi a voce alta. — Falco suona una mazurka, che io ballerò con Zor. Silenzio, signori e signore! —

Si sarebbe sentito ronzare una mosca. Falco che stava gustando un sorbetto, faceva orecchi da mercante; ma un sonoro ceffone gli fece cadere il cucchiaino di mano, mentre la donna grossa come una botte, che già aveva deposta Topolina sulla tavola, gli gridava:

— Su, fannullone, obbedisci alla tua sorellina! Qui tutti aspettano. —

Il fanciullo, inasprito dalla botta, si ribellò.

— E se non volessi suonare? — esclamò con arroganza.

Un rumore di voci coperse la sua.

— Infingardo, vuoi dunque che ti rompiamo le costole?
— Guarda quello scimunito, che dopo aver mangiato e bevuto a ufo, non vorrebbe più partecipare alla comune baldoria!
— Fuori lo strumento o te lo rompiamo sulla schiena!—

La situazione diventava minacciosa: molti si alzavano da tavola, stringendo i pugni e avanzando verso Falco.
Egli era pallidissimo, ma i fumi del vino ottenebrandogli il cervello, lo rendevano spavaldo, gli facevano credere di poter far fronte a tutti.

— No, non suono, — gridò — e vorrei vedere chi mi ci obbligasse.
— Meno chiacchiere! — gridò l'uomo in divisa, che l'aveva accolto al suo entrare nel regno. — Io ti dichiaro in arresto per aver osato di turbare l'allegria che qui deve essere sovrana. Su, manigoldo, vieni con me. —

Aveva afferrato Falco per il colletto, con il proponimento di portarlo via, ed i convitati applaudivano contenti, allorché Topolina intervenne.

— Signor ufficiale della Regina, — disse — lasciate libero mio fratello: è il vino che l'ha reso insolente. Vi chiedo perdono per lui, e sono certa che adesso obbedirà. —

Falco si sentiva umiliato dinanzi a Topolina, ma la prospettiva di una prigione non era fatta per consolarlo. Per questo scelse il male minore e rispose che avrebbe suonato.

— Ah, così va bene!
— Brava, la piccina!
— Evviva, evviva! —

Tutti i visi si erano rasserenati: ognuno tornò al suo posto, apprestandosi ad assistere alla rappresentazione promessa. Falco, lasciato libero, intonò sul flauto un allegro ballabile e Topolina, tratta la sua marmotta, in uno spazio della tavola, sgombrato dai piatti, eseguì con essa una danza meravigliosa, accompagnata da una mimica bizzarra, che faceva smascellare dalle risa quella folla variata e gaudente. L'entusiasmo era generale ed anche Falco ebbe la sua parte di applausi; la qual cosa bastò a dissipargli i vapori del vino ed a tornarlo sorridente ed allegro.

— Bisogna condurli a Corte, — osservarono tutti. — Certo la regina Morgiana e suo figlio, non hanno veduto nulla di più singolare.
— Però, bisogna rivestirli, — esclamò l'ufficiale della Regina. — In quei cenci, sono indegni di essere presentati alla nostra Sovrana.
— Appresterò io gli abiti, — gridò una voce.

Ed un ometto, gonfio come un pallone elastico, si avvicinò a Falco ed a Topolina. Tutti batterono le mani alla sua vista.

— È il mago Trottola, il mago dei fanciulli, — dicevano. — Egli ama molto i ragazzi e regala sempre loro qualche cosa. —

Tutti avevano fatto largo all'ometto, che sorrise guardando Topolina.

— A te, — disse il Mago — regalo un abito di raso bianco, ricamato di perle. —

Così dicendo le pose una mano su una spalla e la fanciulla fu rivestita di una veste superba. L'ometto si volse poscia a Falco:

— Per te, — aggiunse — ci vuole un vestito da trovatore e te lo dono. —

Ed anche il fanciullo fu subito trasfigurato. Ma non bastava. Il mago Trottola fischiò e comparve una bella carrozza, tirata da due cavallini bianchi.

— Io stesso la guiderò, — disse — perché voglio aver l'onore di condurvi dalla nostra Sovrana. —

Falco e Topolina furono trasportati per le vie della città, tutte parate a festa. Le case si vedevano splendidamente illuminate e ne uscivano rumori di risa, di suoni, di canti.

— La gente di questo regno deve essere ben felice, — disse Falco.
— Credo il contrario, — rispose Topolina. — Come si può vivere in continua baldoria, senza sentirsene stanchi, nauseati? Scommetto che dopo una settimana, i cibi più prelibati ti farebbero nausea, il vino ti ripugnerebbe, e desidereresti piuttosto un pezzo di pan nero ed un bicchiere di acqua fresca. —

Falco scosse il capo.

— Non sono del tuo parere, — esclamò. — Invidio questo popolo che si diverte senza tregua, che si sollazza in una continua baldoria.
— Io invece lo compiango, — disse gravemente Topolina.

La carrozza, fermandosi, interruppe i loro discorsi. Giunti a Corte, la regina Morgiana e suo figlio già erano stati avvisati del loro arrivo, sicché il gran salone del palazzo reale raccoglieva intorno alla Sovrana ed al suo unico erede, i gentiluomini, le dame di Corte, queste, vestite tutte di broccato trapunto d'oro; gli altri in pantaloni di stoffa bianca con alti stivali di marocchino rosso e speroni d'oro, in giubbe rosse con alamari d'oro. La regina Morgiana con a fianco suo figlio, si fece incontro ai due ospiti. L'abito di broccato di lei era tutto cosparso di brillanti e nell'alta capigliatura nera aveva un pennacchio tutto cosparso di gemme. Il figlio, un bel giovine dell'età di Falco, aveva un abito di drappo d'argento, interamente guarnito di pietre preziose. Egli parve meravigliato alla vista di Topolina che fece a lui ed a sua madre una graziosa riverenza, dicendo:

— Tanto io che mio fratello siamo felici di trovarci nel vostro regno ed onorati di dare in presenza vostra una rappresentazione, — disse Topolina facendo una bella riverenza.
— Oh, come parla bene, com'è bella! — esclamò il Principino.

La Regina sorrise alle parole del figlio e rispose a Topolina.

— Sono lieta di ricevervi nel mio palazzo, e di godere dello spettacolo, che volete offrirci; ma ditemi prima di dove venite.
— Dal regno del Capriccio, — rispose pronta Topolina.
— Un regno amico, — ribatté la Regina sorridendo. — E dove siete diretti?
— Per ora non abbiamo una meta fissa, — replicò Topolina — né sappiamo ancora se rimarrete contenti di noi. Consentite che cominciamo.
— Sì, carina, — fece la Sovrana, contenta di vedere l'ammirazione di suo figlio per quella graziosa bambola che parlava con tanta grazia e dolcezza.

La regina Morgiana adorava suo figlio ed era per lui, per divertirlo, che essa voleva che il suo regno fosse continuamente in festa. Ma il principino Belfiore, sebbene accarezzato, adulato e circondato di divertimenti, si sentiva sempre mesto. Soltanto la vista di Topolina gli aveva fatto per la prima volta battere il cuore di gioia, risplendere gli occhi di vivissima luce. La Regina, seduta sul trono con accanto il figli e le dame ed i gentiluomini, si misero in circolo. Nel mezzo stavano Falco e Topolina. Il fanciullo trasse il suo flauto, Topolina la sua piccola marmotta. E la rappresentazione cominciò. Dire l'allegria suscitata dalla danza di Topolina, dai lazzi della marmotta, dal suono di Falco, sarebbe impossibile. Ma chi provò maggior diletto fu il Principino. Nessuno lo aveva mai veduto ridere così di cuore, battere le mani con tanto impeto, chiacchierare con tanta vivacità.

— Mamma, — disse ad un tratto — noi non dobbiamo lasciarli più partire. Se Topolina se ne andasse, io ne morrei.
— Essa resterà, resterà, — esclamò la Regina che aveva già stabilito il suo piano.

Falco e Topolina vennero alloggiati nello stesso palazzo reale, ma in due appartamenti separati. Diverse ancelle dovevano servire la fanciulla, alla quale la Sovrana aveva mandato in dono molti ricchi abiti. Topolina si struggeva non potendo interrogare la marmotta alla presenza di quelle ancelle che avevano l'ordine di non abbandonarla un istante, che vegliasse o dormisse. Senonché, la fanciulla non volle in alcun modo lasciarsi spogliare da loro, per non farsi carpire i suoi talismani. Ella era così stanca del viaggio compiuto che si addormentò profondamente, tenendo stretta al seno la sua piccola marmotta. Quanto tempo dormisse non avrebbe saputo dirlo. Ma allorché si svegliò, la marmotta non c'era più.

— Zor, dov'è Zor? — chiese alle ancelle.

Esse assicurarono che, pochi minuti prima, dormiva ancora al suo fianco.

— Zor! Zor! — chiamò disperata la fanciulla.

Ma la marmotta non rispose, né comparve.

— Me l'hanno presa! Rendetemela, rendetemela! — esclamava fra i singhiozzi Topolina.

Le giurarono che nessuno l'aveva toccata; ma Topolina non le credette e chiese di essere condotta dalla Sovrana, ad implorare giustizia. La regina Morgiana si trovava con suo figlio in una sala dov'era imbandita una sontuosa tavola per la colazione, allorché comparve Topolina scarmigliata, piangente, ma ancora più bella nel suo dolore. Il Principino ne fu commosso.

— Perché piangi così? Che ti hanno fatto?
— Mi hanno preso la marmotta.
— Chi ebbe tale ardire? — gridò la Regina. — O le sia subito resa o farò tagliar la testa alle ancelle che vegliarono stanotte la stanza di Topolina. —

Tutto il palazzo fu sottosopra; ma della marmotta non si trovò traccia. Le ancelle, piangendo, giurarono della loro innocenza, dissero che nessuno era entrato nella camera della fanciulla; ma la Regina non volle intender ragioni: la loro morte fu sentenziata. Nondimeno, Topolina stessa chiese grazia per loro e la Sovrana disse che l'avrebbe concessa, se ella acconsentiva a sposare suo figlio. Topolina provò un fremito di spavento. Non già che le dispiacesse il principino Belfiore; ma essa amava Falco e non voleva ad alcun costo rinunziare a lui.

— Risolvi, — incalzò la Regina. — Dipende da te la vita di quelle fanciulle.
— Oh, potente Sovrana, amabile Principino, no, voi non vi mostrerete crudeli con quelle innocenti, che io ho già perdonate, se rifiuto di divenire principessa! Sono una povera bimba, senza istruzione, senza bellezza, senza fortuna: ho giurato di non abbandonare mai mio fratello, di far ritorno un giorno alla nostra povera capanna e desidero mantenere il mio giuramento. Il Principino troverà una sposa più degna di lui.
— Voglio te, non altra che te! — interruppe con calore il Principino. — Tu hai la bellezza, la grazia, la bontà; ed io non voglio perderti. Tuo fratello resterà presso di me. Lo farò primo ministro.
— Falco non accetterà, sapendo di non essere adatto a una simile carica.
— Proviamo ad interrogarlo. —

Topolina, per non aggravare la sua situazione, scorgendo la minaccia negli occhi della Regina, acconsentì.

— Che sia subito condotto qui Falco! — ordinò il Principino.

Diversi servi si recarono ad eseguire l'ordine, ma ritornarono quasi tosto, dicendo che Falco non si trovava più nel suo appartamento e nessuno sapeva dove fosse.

— Sarà lui, — esclamò la Regina — che ti ha rubato la marmotta ed è partito senza te.
— No, non è possibile, — gridò la fanciulla — gli avranno teso qualche agguato: io stessa andrò in cerca di mio fratello.
— Tu non uscirai di qui per perderti a tua volta, — disse la Regina. — Sarà nostra cura di farlo ricercare.
— Sì, sì, non piangere Topolina: lo ritroveremo, — interruppe il Principino. — Convocherò tutti gli indovini del regno ed essi sapranno dirti dove si trova tuo fratello e la piccola marmotta. —

Topolina avrebbe preferito chiedere l'aiuto dei buoni geni che la proteggevano; ma quello non era il momento di farlo, tanto più che Falco si trovava forse nelle mani dei nemici della fata Gusmara. Poi essa comprendeva che il Principino non era colpevole della scomparsa di suo fratello, mentre la Regina doveva essere a parte del complotto per impedire loro di recarsi alla conquista dei sette capelli d'oro. Perciò, ella si tacque e non protestò, limitandosi a piangere. Il principino Belfiore dette subito ordine che gli indovini si recassero al palazzo. E non era scorsa mezz'ora che nel salone comparvero sei uomini, dall'aspetto di giganti. Indossavano una lunga tonaca nera con figure simboliche su una stoffa del color del papavero. Inoltre tenevano sul capo un alto cono, da cui pendeva un velo che ravvolgeva le lor persone. I sei indovini si prosternarono dinanzi la Regina ed a suo figlio.

— Siamo ai tuoi comandi, possente Regina, — dissero.

La Sovrana li salutò col gesto e rispose con accento solenne:

— Alzatevi: io vi ho qui chiamati per far scaturire la luce nel tenebroso mistero che ci ravvolge. Un fanciullo ed una marmotta sono scomparsi dal mio palazzo ed è stata inutile ogni ricerca per ritrovarli. Il mio potere di regina non basta a che io percepisca le cose oltre il mio regno, mentre a voi è concesso di consultare gli spiriti di mondi estranei. Attendiamo dunque dalla vostra saggezza la verità su quelle misteriose scomparse.

— E se saprete ritrovarli, vi prometto fin d'ora che sarete largamente ricompensati, — aggiunse il Principino, il quale teneva al fianco la sua diletta Topolina.

La fanciulla si sforzava a dominar la sua commozione, vinta dalla curiosità.

— Noi siamo pronti ad obbedirvi, — esclamarono gli indovini, emettendo degli urli gutturali.

Poi rialzatisi, si avvicinarono ad un tripode pieno di carboni ardenti, posto in mezzo al salone, ed uno di essi, che pareva il capo perché gli splendeva sul cono che teneva in testa una mezzaluna di brillanti, tolse da una scatola d'argento un pizzico di polvere e con voce potente, mentre la gettava nelle brace:

— Radamah, Radamah, — evocò — dio delle tenebre, tu solo puoi cercare e trovare. Radamah, Radamah, cerca, trova: lo vogliamo! —

Una vivida fiamma rossa, vorticosa, si alzò quasi fino al soffitto ed in mezzo a quella fiamma, apparve uno spaventoso gorilla, dall'orribile testa.

— Traditori, traditori! — gridò con una voce sepolcrale. — Perché vorreste obbligarmi a cercare un nostro nemico, che congiura contro di noi?
— T'inganni, — disse il capo indovino — non si tratta che di rivelarci dove si trovi un povero fanciullo suonatore di flauto, che la nostra Sovrana protegge, ed un'innocua marmotta.
— Tradimento, tradimento! — replicò il gorilla, agitandosi in mezzo alle fiamme — la Sovrana fu ingannata: quel fanciullo stava per essere smascherato quando venne in suo soccorso un messo della fata Gusmara, sotto forma di marmotta, trasportandolo via dal vostro palazzo, dal vostro regno. —

Topolina sentendo questo, mandò un sospiro di sollievo: essa non pensava a sé, ma a Falco e alla sua marmottina. Erano dunque salvi, salvi! Oh, la buona e benedetta Fata! Il Principino ebbe come un gesto di terrore; alcune gocce di gelido sudore gli stillarono dalla fronte, e le tempie gli pulsarono più forte. La regina Morgiana pestò i piedi, assalita dal furore: le sue narici si dilatarono; feroci lampi brillavano nei suoi occhi.

— È vero, è dunque vero il tradimento? E mi sono sfuggiti? E non si possono raggiungere?
— No, — rispose il gorilla sghignazzando. — Ma potete rifarvi, perché tenete nelle mani una nemica più pericolosa: Topolina la protetta della fata Gusmara.
— A morte, sia messa a morte! — gridarono gli indovini e quanti erano presenti all'infuori del Principino, che si pose dinanzi alla fanciulla, dicendo:
— No, nessuno la toccherà: mille volte no. Se la uccidete, morirò con lei. Topolina è mia sposa.
— Che essa accetti, e sarà salva, — gridò la regina Morgiana.
— Non accetterà, non accetterà, — osservò il gorilla. — Il Principe poi tradirebbe le speranze dei suoi sudditi, impalmando una nemica del suo regno.
— Io non sono nemica che dei cattivi e crudeli, — disse Topolina colla sua bella voce che fu sentita da tutti. — Il principe Belfiore è buono, ha l'anima generosa ed ora che so in salvo il mio fratellino e la marmotta, non per timore della morte, ma per riconoscenza, lo sposerò. —

Appena ebbe pronunziato queste parole, il gorilla con un urlo possente, che parve lo scoppio del tuono, tanto che ne fu scosso tutto il palazzo, mandando fiamme dagli occhi e dalla bocca, disparve, mentre il Principino si stringeva al cuore la fanciulla e gli altri sembravano impazziti dalla gioia per la risoluzione di Topolina. Le nozze dovevano celebrarsi tosto con gran baldoria, degna del suo regno. La Sovrana impartì gli ordini per le feste: feste brillanti, feste della durata di un mese; e quella sera stessa venne nel palazzo apprestato un sontuoso banchetto, al quale presero parte tutti i notabili del regno. Il Principino e Topolina sedevano su di una specie di trono, al posto d'onore: la regina Morgiana presso suo figlio; al fianco della sposa stava il primo ministro del regno. La sala da pranzo, di stile orientale, risplendeva di quanto di più ricco e fantastico si possa immaginare: la tavola era ricoperta di fiori, di squisiti cibi e bevande con un meraviglioso servizio tutto oro e cristallo di rocca. Un'orchestra invisibile eseguiva delle meravigliose melodie, e durante il pranzo una quantità di giovani dame, in costumi abbaglianti, danzavano intorno alla tavola. Il pranzo doveva protrarsi tutta la notte ed i commensali gli facevano onore. Anche il Principino, ormai soddisfatto al pensiero che quella vezzosa creatura, che gli stava vicina, sarebbe stata sua per sempre, si mise a mangiare con appetito e bere a profusione dei preziosi vini profumati che gli servivano in calici d'oro. Solo Topolina conservava la sua temperanza, e quando si accorse che tutti erano invasi dalla più pazza allegria sotto l'influenza degli squisiti cibi e delle bevande generose, chiese il permesso di ritirarsi un momento, poiché tutto quel caldo, quel frastuono la stordivano, ed ella sentiva bisogno di alcuni minuti di respiro, di riposo. Il Principino acconsentì e la Sovrana stessa volle accompagnare la fanciulla nell'appartamento già destinato agli sposi, l'obbligò dolcemente a sdraiarsi su di un divano e, baciatala in fronte, l'esortò a dormire alquanto, per essere in piedi allo spuntar del sole, momento in cui comincerebbero le feste del matrimonio. Poi, la regina Morgiana se ne andò, chiudendo a doppio giro la porta di quella stanza e ordinando alle ancelle che erano al di fuori, che ella fosse lasciata tranquilla.

— Povera piccina! — disse. — Essa non è ancora avvezza a tanta baldoria, si trova stordita; ma non tarderà ad abituarsi, ed un'altra volta non ne soffrirà più. —

Topolina rimase per alcuni minuti immobile, poi non sentendo più alcun rumore, trovandosi sola, si alzò svelta e leggera ed avvicinatasi ad un tavolino, su cui era tutto l'occorrente per scrivere, vergò in fretta queste parole:

«Principino, Perdonatemi se vi lascio; ma io non posso essere la sposa di un nemico della buona fata Gusmara, né rinunziare al giuramento fatto ad un povero vecchio. Voi potete essere felice anche senza di me, né vorrete maledirmi, perché siete buono e lo diventerete ancora più, e formerete la prosperità del vostro regno, facendo cessare quelle baldorie che lo rovinano, lo rendono indegno di un principe come voi. Addio. Se anche non ci vedremo più, non vi dimenticherò mai; e pregherò la buona Fata che vi renda contento come meritate. Topolina.»

Terminato di scrivere, la fanciulla staccò dal cordoncino che aveva al collo un pezzetto della setola del cinghiale, avvicinandolo alla fiamma della candela. Un lieve fumo azzurrognolo ne uscì, si disperse per la stanza e Topolina si vide dinanzi un moretto, poco più alto di lei, fantasticamente vestito, che sorrideva mostrando i denti bianchissimi fra le labbra di porpora.

— Eccomi ai tuoi comandi, — disse. — Che desideri?
— Desidero cambiare i miei ricchi abiti con un vestito modesto e raggiungere subito mio fratello, se sai dove si trova, — rispose la fanciulla.
— Sì, lo so: è ben lontano da questo regno. È sulla riva del mare, e piange, t'invoca, non credendo alla marmotta, che pure lo conforta ad attendere, e gli dice che ti rivedrà. —

Topolina sorrise, mentre sugli occhi le spuntavano delle lacrime.

— Povero Falco! Cara Zor! — mormorò.

E stendendo le mani al moretto:

— Oh, conducimi subito da loro! — aggiunse.

Si udì un rumore formidabile come lo scoppio di un cannone: il palazzo reale ne fu scosso sino alle fondamenta, e Topolina si sentì in un istante trasportare sopra una barca, condotta da quattro altri moretti, la quale fendeva le onde colla rapidità del volo di un uccello. Lontano lontano si scorgevano ancora i bagliori delle fiaccole che illuminavano il regno della Baldoria. Finalmente tutto disparve agli occhi di Topolina che, cullata dolcemente dal moto della barca, finì con l'addormentarsi.

tratto da: intratext.com