Doveva essere un giorno felice. Si celebravano le nozze di una dea del mare, Teti, con un uomo bellissimo, Peleo, e tutti gli dei erano venuti a festeggiare gli sposi portando loro una grande quantità di doni. La sala del banchetto splendeva di mille luci e sulla grande tavola brillavano le caraffe e le coppe preziose, colme di nettare e ambrosia; dei e dee chiacchieravano gaiamente. Volevano starsene tutti in pace e contenti; perciò al banchetto non era stata invitata Eris, l’imbronciata dea della discordia. Se compariva lei scoppiavano litigi furiosi e più nessuno aveva voglia di ridere e scherzare.
Ma quella guastafeste riuscì ugualmente a rovinare ogni cosa. Nel bel mezzo del pranzo arrivò di corsa e fece rotolare sulla tavola una mela d’oro. Poi, ridendo malignamente, scappò via.
Tutti – dei e dee – cercarono di afferrare la mela preziosa, se la strappavano di mano l’un l’altro, gridavano, litigavano.
– Attenzione! – gridò a un certo punto qualcuno – Sul pomo c’è una scritta.
– Cosa?
– Dove?
– Fate vedere.
– Avanti, qualcuno legga cosa c’è scritto.
– C’è scritto: “Alla più bella”.
Allora Era, Atena e Afrodite si buttarono sulla mela d’oro.
– A me, a me – gridavano dandosi gomitate e spintoni.
– Spetta a me la mela d’oro. Sono io la più bella! – strillavano furiose pestandosi i piedi.
– Sia Zeus, il padre di noi tutti, a decidere chi tra voi tre meriti il pomo d’oro – proposero gli altri dei.
– Cosa?
– Dove?
– Fate vedere.
– Avanti, qualcuno legga cosa c’è scritto.
– C’è scritto: “Alla più bella”.
Allora Era, Atena e Afrodite si buttarono sulla mela d’oro.
– A me, a me – gridavano dandosi gomitate e spintoni.
– Spetta a me la mela d’oro. Sono io la più bella! – strillavano furiose pestandosi i piedi.
– Sia Zeus, il padre di noi tutti, a decidere chi tra voi tre meriti il pomo d’oro – proposero gli altri dei.
Ma Zeus, sentendo aria di grane a non finire, declinò l’incarico di giudice con un discorsetto che fu un capolavoro di diplomazia:
– Non voglio essere io arbitro tra voi, perché voglio bene a tutte e tre e, se fosse possibile, vorrei vedervi tutte e tre vincitrici. Ma il pomo è uno solo, perciò una sola può ricevere il premio di bellezza. Io però non me la sento di giudicare, perché per me siete tutte e tre ugualmente belle. È meglio allora che Ermes vada sul monte Ida, in Asia Minore, a cercare il figliolo del re di Troia, e gli dica: “O Pàride, Zeus comanda che tu, che sei molto bello e ti intendi assai delle cose d’amore, giudichi tra queste dee qual è bellissima”. La prescelta avrà il pomo. Pàride vive come un montanaro, in una capanna, e porta al pascolo capre e buoi, ma è un ragazzo ammodo, è di sangue reale, e parente del nostro coppiere Ganimede: nessuno lo riterrebbe indegno di esaminarvi e di giudicare. […] Andate dunque, e le vinte non se la prendano con il giudice, non si sdegnino, non facciano del male a quel ragazzo. Bisogna che tra voi ne scelga una e non può sottrarsi a questo compito.
Ermes, sempre impaziente, tagliò corto: – Su forza, andiamo subito dritto filato sul monte Ida in cerca di Pàride, e state tranquille: io lo conosco, è un ragazzo molto gentile e un vero intenditore di bellezza. Un’ingiustizia non la farebbe mai. – Ma vedo che siamo quasi arrivati: ecco là il monte Ida e anche il vostro giudice. –
Era, aguzzando lo sguardo: – Sì, sì, lo vedo anch'io. Non è quello che esce dalla grotta spingendo i buoi dinanzi a sé?
– È lui. Adesso posiamo i piedi a terra e camminiamo verso di lui per non spaventarlo volandogli addosso all’improvviso.
– Salve, mandriano. –
Pàride rispose subito al saluto dello sconosciuto: – Salve a te, giovanotto che hai le ali ai piedi. Chi sei? Chi sono queste donne con te? Di così belle non ne ho mai viste su per queste montagne.
– Non sono donne, Pàride. Tu vedi dinanzi a te le dee Era, Atena, Afrodite, e me che sono Ermes.
Ci manda Zeus. Ma perché impallidisci? Non temere, non corri alcun rischio. Zeus ordina che tu giudichi qual è la più bella tra loro e a essa consegni in premio questo pomo d’oro.
– O potente Ermes, ma come posso io, che sono un semplice mandriano, giudicare bellezze simili, di cui non ho mai visto l’uguale? Forse chi vive in città tra tante cose raffinate ed eleganti potrebbe fare da giudice, non io che so soltanto distinguere tra capra e capra qual è la più bella, o tra giovenca e giovenca. Queste tre dee sono tutte ugualmente bellissime. Se ne guardo una la trovo meravigliosa e se stacco gli occhi da lei e li rivolgo a un’altra, anche questa mi pare incantevole, come le altre due che le stanno vicino. Insomma, vorrei avere cento occhi per poterle rimirare a dovere, ma non potrei mai decidere chi tra loro è la più bella. E l’imbarazzo in cui mi trovo cresce, se penso che l’una è moglie di Zeus, l’altra è sua figlia, l’altra ancora è addirittura figlia dell’antico Urano, il Cielo. Anche per questo motivo, ti confesso, mi sembra che esprimere un giudizio sia cosa troppo rischiosa.
– Che vuoi che ti dica – rispose Ermes. – Io so soltanto che non si può disubbidire al comando di Zeus e che la mela non può essere divisa.
– Ho capito, ci proverò. Non posso fare altrimenti. – E Pàride prese la mela d’oro tra le mani, pensieroso.
Allora Era gli si avvicinò e disse: – O Pàride, principe di Troia, se giudicherai me la più bella, ti renderò padrone di tutta l’Asia e ricco più di qualsiasi altro uomo sulla terra.
Dopo Era parlò Atena: – Guardami, figlio del re Priamo, e sappi che se darai a me la mela d’oro io ti renderò un guerriero invincibile, il più forte, ma anche il più saggio, di tutti gli uomini.
Fu quindi la volta di Afrodite, che soavemente sussurrò: – Ascoltami, bel giovane, se darai a me il pomo della vittoria, io ti darò in moglie la più bella donna del mondo: Elena di Sparta, che è figlia di Leda e di Zeus stesso ed è bionda, bianca e delicata, bella e amorosa quanto me, parola di dea.
– Sì, – ribatté Pàride – è la più bella donna del mondo, ma è anche moglie di Menelao! E non posso credere che abbandonerebbe il marito e la sua reggia, a Sparta, per seguire uno sconosciuto, un forestiero.
– Ah, ah, ah! – gorgheggiò Afrodite – Come sei giovane e inesperto! So io come fare a convincerla…
– E come farai? Voglio saperlo anch’io.
– Dunque, caro ragazzo, tu andrai in Grecia e io ti darò il mio figlioletto Eros, il piccolo dio dell’amore, come compagno di viaggio. Quando sarai a Sparta, Eros, di nascosto, colpirà la bella Elena con una delle sue frecce facendola innamorare pazzamente di te. Io poi ti prometto la mia protezione, per sempre.
– Me lo giuri? – gridò Paride.
– Certo che sì.
Afrodite giurò e Pàride le consegnò il pomo prezioso. Ma in questo modo si attirò l’odio delle altre dee, che si allontanarono complottando la rovina della sua città: Troia.
Tempo dopo Pàride ottenne dal padre di essere inviato come ambasciatore a Sparta, dove regnavano Menelao ed Elena.
Il principe di Troia fu accolto con tutti gli onori da Menelao e il suo arrivo venne annunciato da un’ancella alla regina: – Da una città lontana, di là dal mare, è giunto qui un giovane straniero. È bellissimo e indossa vesti meravigliose intessute d’oro e d’argento. Chiede di poterti offrire i doni che porta con sé.
Elena, allora, indossò una tunica bianca e leggera, fittamente pieghettata, posò un diadema d’oro sui bei capelli lucenti d’olio profumato e andò incontro all’ospite.
Quando la bella donna entrò nella sala del banchetto, a Pàride sembrò di vedere una dea. Non poteva
staccare gli occhi da lei e ogni suo sorriso lo riempiva di felicità.
– Non potrò mai amare altra donna che questa – pensava – e non avrò pace finché non la farò mia sposa. È questa la donna che Afrodite ha promesso di darmi e l’avrò. A ogni costo. La porterò con me a Troia e sarò felice con lei, per sempre.
Mentre pensava queste cose non smetteva di lanciare a Elena sguardi appassionati, sospirando.
Anche la regina lo guardava, di tanto in tanto, un po’ compiaciuta, un po’ imbarazzata. Quelle dolci occhiate resero Pàride sempre più ardito. Elena aveva appena posato sulla tavola il calice d’oro in cui aveva bevuto, che Pàride lo afferrò e se lo portò alla bocca posando le labbra dove lei aveva appena messo le sue, poi intinse un dito nel nero vino e tracciò sulla tavola le parole: – Ti amo, Elena.
Preoccupatissima, Elena coprì la scritta con il suo tovagliolo e guardò il marito, timorosamente.
Ma Menelao non si era accorto di nulla e continuava tranquillamente a mangiare, a bere, a rivolgere all’ospite domande sul suo Paese lontano.
L’indomani, il re distratto partì per l’isola di Creta, lasciando sola con lo straniero la giovane moglie.
Di nuovo Pàride dichiarò alla regina il suo amore: – Mai nessuno ti amerà quanto ti amo io. Parti con me e ti farò felice.
Elena era affascinata dalla bellezza, dalla gentilezza e dalla devozione del giovane principe straniero, ma resisteva, perché sapeva che non era giusto abbandonare la casa, il marito e la figlioletta ancora piccola che aveva bisogno di lei.
Perciò non rispondeva agli inviti di Paride ma neppure si allontanava da lui. Soltanto quando scese la notte si ritirò nella propria stanza, ma non riuscì a prendere sonno. Ormai Eros, il dio dell’amore, aveva acceso in lei la fiamma della passione. Appena chiudeva gli occhi, la regina innamorata rivedeva il bel volto del principe straniero, ne riudiva le tenere parole. La sua mente e il suo cuore non potevano staccarsi da lui.
Prima che la luce dell’alba scivolasse nella stanza, Elena aveva preso la sua decisione: quella notte stessa avrebbe raggiunto Pàride nella sua nave e sarebbe fuggita con lui.
Così fu.