Durante il regno del califfo Harùn ar-Rashìd, Emiro dei credenti, viveva nella città di Baghdad un uomo chiamato Sindbad il Facchino, il quale era molto povero e per guadagnarsi da vivere portava dei carichi sopra la testa. Ora avvenne che un giorno di gran caldo, mentre trasportava una cesta assai pesante che lo faceva sudare e faticare moltissimo, il povero Sindbad si trovò a passare davanti alla porta di una ricca dimora. La strada davanti alla casa era stata spazzata e innaffiata e dal giardino veniva un delizioso venticello. Vedendo che accanto alla porta c'era una panca, Sindbad depositò a terra la cesta e si sedette per riprendere fiato in quel luogo delizioso.
E mentre stava seduto, asciugandosi il sudore e riflettendo sulla miseria della sua condizione, il vento gli portò dall'interno della casa il profumo di cibi squisiti, il suono di musiche e canti, un rumore di voci allegre e scoppi di risa e il cinguettare meraviglioso di uccelli d'ogni specie. Allora Sindbad il Facchino alzò gli occhi al cielo e disse: " Sia lode a te, o Allah, Creatore di tutte le cose, Signore Onnipotente che distribuisci la ricchezza e la miseria. Tu non devi rendere conto a nessuno di ciò che fai ed ogni uomo ha quel che gli tocca. Vi sono quelli, come il padrone di questa casa, che sono agiati e felici, e vi sono quelli che, come me, sono poveri e afflitti! Eppure siamo tutti di uno stesso seme. Ma a me è toccato in sorte portare carichi pesanti e ricevere in cambio solo miseria e afflizione. Scommetto che il padrone di questa casa non ha mai toccato nemmeno con un dito una cesta pesante come questa; eppure, egli si ristora al fresco di questo giardino. La sua sorte assomiglia alla mia quanto il vino assomiglia all'aceto. Tuttavia non credere, Signore, che io mi lamenti. Tu sei Grande, Magnanimo e Giusto. E se Tu governi così il mondo, vuol dire che è giusto che il mondo sia governato così! " Quando ebbe terminato questa invocazione, Sindbad fece per rimettersi in capo la cesta e riprendere il cammino, allorché dalla porta della casa uscì un giovane servo, bello e ben vestito, il quale, presolo per mano, gli disse: " Entra, perché il mio padrone desidera vederti. " Sindbad lasciò la sua cesta in consegna al portinaio e seguì il servo, che lo introdusse in un meraviglioso salone dal pavimento di marmo, coperto di tappeti preziosi, e dove era imbandita una mensa ricchissima. Tutto intorno, su meravigliosi, cuscini, sedevano persone di riguardo; al centro, nel posto d'onore, sedeva un uomo dalla lunga barba bianca e dall'aspetto grave, dignitoso e nobile. " Per Allah! " pensò Sindbad il Facchino, " questo luogo deve essere la dimora dì qualche re o di qualche sultano! "I Poi si ricordò di compiere quelli atti che esige la buona educazione e, dopo avere salutato rispettosamente gli astanti, si inginocchiò davanti al padrone di casa e baciò la terra. Con molta amabilità il padrone di casa gli diede il benvenuto, poi lo fece sedere accanto a sé le lo invitò a gustare cibi e bevande che il povero Sindbad non aveva mai assaggiato in tutta la sua vita. Quando questi ebbe finito di mangiare e si fu lavato le mani, " Sia lode a Dio! " disse e ringraziò tutti i presenti per le loro gentilezze. Come vogliono le buone regole, solo quando vide che il suo ospite si era rifocillato il padrone di casa prese ad interrogarlo: " Benvenuto in casa mia, e che la tua giornata sia benedetta! Ma dimmi, o mio ospite, come ti chiami e che mestiere fai? " " Mi chiamo Sindbad il Facchino, o signore, e il mio mestiere consiste nel portare carichi sulla testa. " Il padrone di casa sorrise e gli disse: " Sappi, o facchino, che il tuo nome è uguale al mio; infatti, io mi chiamo Sindbad il Marinaio. Ora vorrei pregarti di ripetere qui ciò che dicevi poco fa mentre stavi seduto fuori della porta di casa mia. " Allora Sindbad il Facchino si senti pieno di vergogna e disse: " Nel nome di Allah, non rimproverarmi per la mia insolenza! La fatica e la miseria rendono l'uomo sciocco e maleducato! " Ma Sindbad il Marinaio gli disse: " Non devi vergognarti. Ripeti senza alcuna preoccupazione ciò che dicevi perché tu ora sei come mio fratello. " Allora il Facchino, rassicurato, ripete le parole che aveva pronunciato sulla porta di casa. Quando ebbe terminato, Sindbad il Marinaio si rivolse a lui e gli disse: " Sappi, o Facchino, che la mia storia è senza precedenti. Ora ti racconterò tutte le avventure che mi sono capitate e tutte le prove che ho dovuto subire prima di giungere a questa felicità e di poter abitare nel palazzo in cui tu mi vedi. Sentirai quanti disagi e quali terribili calamità io abbia dovuto affrontare per poter ottenere gli agi che circondano ora la mia vecchiaia. Sappi dunque che io ho fatto numerosi viaggi, e ogni viaggio fu un'avventura meravigliosa, tale da destare in chi l'ascolta uno stupore senza limiti. Ma tutto ciò che ora ti racconterò è avvenuto perché era scritto, e da ciò che è scritto non v'è scampo né rimedio! ".
Primo viaggio di Sindbad il Marinaio
Sappiate, o illustri signori, e te, onesto Facchino, che mio padre era mercante di professione e uno dei più ricchi che ci fossero nel suo tempo. Quando mio padre morì, mi lasciò grandi ricchezze in denaro, merci, case e terreni. Io, purtroppo, nella insipienza della gioventù, presi a frequentare compagnie dissipate, passavo il mio tempo a bere e giocare e in festini e in conviti e non mi avvedevo che le mie ricchezze, per quanto grandi fossero, andavano sempre più scemando. Un giorno, finalmente, mi riscossi da quel mio stordimento e mi accorsi che tutte le mie sostanze erano dilapidate. Mi ricordai allora delle parole del nostro signore Salomone, figlio di Davide; " Tre cose sono migliori di tre altre: il giorno della morte è meglio del giorno della nascita, un cane vivo è meglio di un leone morto, la tomba è preferibile alla povertà. " Misi insieme allora quel poco che mi era rimasto e lo vendetti all'incanto ricavandone tremila dirham. Poi ricordai il verso del poeta:
"Chi vuole la gloria senza fatica, passerà la vita inseguendo un sogno impossibile."
Senza por tempo in mezzo, mi recai al suk, dove acquistai per duemila dirham di merci. Quindi con la mia roba salii su una nave, dove erano già imbarcati diversi mercanti, e scesi lungo il Tigri fino a Bassora. Di qui la nave spiegò le vele verso il mare aperto. Viaggiammo per giorni e notti, toccando un'isola dopo l'altra e una terra dopo l'altra; e in ogni luogo dove ci fermavamo scendevamo a terra - a vendere ed a scambiare le merci. Un giorno, dopo che navigavamo da parecchio tempo senza avere avvistato un solo lembo di terra, improvvisamente vedemmo sorgere davanti a noi un'isola che sembrava il paradiso. Il capitano fece vela verso l'isola e, ormeggiata la nave, scendemmo tutti a terra, dove alcuni prepararono i fornelli per cucinare, altri si misero a passeggiare contemplando le bellezze del luogo. Io fui fra questi ultimi.
Mentre ce ne stavamo così, godendoci la bellezza di quel sito, a un tratto sentimmo la terra che tremava sotto i nostri piedi e udimmo il capitano che, sporgendosi dalla murata della nave, gridava: " Passeggeri, salvatevi! Fate presto! Risalite subito a bordo! Lasciate ogni cosa, se tenete alla vita! Fuggite l'abisso che si spalanca sotto di voi! Perché l'isola su cui vi trovate non è un'isola, ma una balena gigantesca, che da tempo immemorabile si è adagiata in mezzo al mare. La balena è rimasta così da tanto tempo che il mare l'ha ricoperta di sabbia, e le sono cresciuti sul dorso gli alberi che vedete! Voi, accendendo i fuochi per cucinare, l'avete risvegliata, ed ecco che ora si muove e vi trascinerà con sé negli abissi! Salvatevi, abbandonate tutto! " . Udendo queste parole del capitano, i passeggeri, presi dal terrore, si misero a correre verso la nave abbandonando le loro robe, i fornelli, le pentole. Ma la balena era già in movimento e la nave stava già levando le ancore, così che solo alcuni riuscirono a salire a bordo. Gli altri, quelli che si trovavano più lontano o che si erano attardati a raccogliere le loro cose, furono travolti dalle onde e sommersi nel mare profondo. Io fui fra questi ultimi. Ma Allah Altissimo e Misericordioso mi salvò dalla morte facendomi capitare sotto mano un grosso mastello di legno, di quelli che si usano per fare il bucato. Io mi ci misi sopra a cavalcioni e muovendo disperatamente i piedi come fossero remi cercai di raggiungere la nave che si allontanava a vele spiegate. La seguii per un pezzo, finché non la vidi sparire all'orizzonte, e mi ritrovai in mezzo al mare, solo e derelitto, sicuro ormai di morire. Per una notte e un giorno, fui sballottato dalle onde e dai venti. Alla fine le correnti marine mi gettarono contro un'isola rocciosa. Aiutandomi con le mani e con i piedi riuscii ad attaccarmi a dei cespugli e a salire in cima alle scogliere. Quando toccai terra, mi esaminai il corpo e vidi che era tutto gonfio e martoriato e che i piedi recavano i segni dei morsi dei pesci. Ma non sentivo alcun dolore, tanto ero sfinito. Mi gettai a terra e per la stanchezza svenni. Rimasi a lungo così, in questo stato d'incoscienza, e mi risvegliai solo al secondo giorno, quando il sole cominciò a battermi addosso. Feci per alzarmi in piedi ma le gambe, gonfie e piagate, non mi reggevano. Considerai la miseria del mio stato, ma con la forza della disperazione cominciai a trascinarmi per terra, fino a che, dopo molto patire, giunsi in mezzo ad una pianura, dove scorrevano ruscelli e crescevano alberi da frutta. Rimasi in quel luogo molti giorni, bevendo l'acqua dei ruscelli e mangiando la frutta, finché non mi sentii guarito e rifocillato. Quando fui in grado di alzarmi, mi fabbricai un bastone con il ramo di un albero e cominciai a passeggiare ammirando tutto ciò che Allah aveva creato su quella terra.
Un giorno, che camminavo lungo la spiaggia del mare, vidi di lontano qualcosa che mi parve essere una bestia selvaggia o un mostro marino. Curiosità e paura si combattevano in me, sì che facevo dieci passi avanti e cinque indietro. Alla fine mi feci coraggio e, avvicinandomi, potei vedere che si trattava di una bellissima giumenta, legata a un paletto sulla riva del mare. Mentre stavo là a contemplare la bestia, essa emise un alto nitrito ed ecco che da sotto terra sbucò un uomo, il quale mi venne dietro gridando: " Chi sei tu? E da dove vieni? Per quale motivo ti sei avventurato fin qui? " " Signore, " risposi, " sappi che io sono uno straniero e mi trovavo insieme ad altri passeggeri su una nave che ha fatto naufragio. Tutti i miei compagni sono morti, ma Allah mise fra le mie gambe un mastello che mi tenne a galla e così arrivai sino alle sponde di questa terra. " Quando quell'uomo ebbe udito le mie parole, mi prese per mano e mi disse: " Seguimi! " Scendemmo in una caverna sotterranea ed entrammo in una grande sala, dove mi fece sedere e dove mi portò da mangiare. Poiché avevo fame, mangiai di buon appetito e quando egli vide che ero rifocillato e il mio animo era tranquillo, mi chiese di raccontargli per filo e per segno tutto ciò che mi era accaduto; io gli raccontai la mia storia fin dal principio senza trascurare nulla, ed egli dimostrò grande meraviglia. Quando ebbi finito il mio racconto, gli dissi: " In nome di Allah, signore, non prendertela con me se ora ti chiedo una cosa. Io ti ho raccontato la verità sulla mia condizione. Ora vorrei che tu mi dicessi chi sei e per quale motivo abiti in questa sala sotterranea e perché tieni una giumenta legata sulla riva del mare! " " Sappi, " mi rispose, " che siamo in parecchi sparsi sulle spiagge di quest'isola e siamo tutti guardiani dei cavalli del re Mihragiàn. Tutti i mesi, quando c'è la luna nuova, scegliamo una giumenta di razza e la leghiamo sulla riva del mare, poi ci nascondiamo in queste caverne sotterranee. Ed ecco che, attirato dall'odore della femmina, esce dal mare un cavallo marino e si guarda intorno e non vedendo nessuno piomba sulla giumenta e la copre. Quando ha finito di montarla si avvia verso il mare, ma la giumenta che è legata non può seguirlo e allora comincia a nitrire e a scalpitare. E il cavallo marino grida e la colpisce con la testa e con le zampe. Allora noi che siamo nascosti qui sotto sappiamo che il cavallo marino ha finito di montare la giumenta e usciamo fuori dal nostro nascondiglio e cominciamo a correre e a gridare e il cavallo marino spaventato si tuffa di nuovo tra i fiotti. Così la giumenta, fecondata, rimane pregna e partorisce un puledro che vale un tesoro, perché non ve ne sono di eguali sulla terra. E proprio oggi è il giorno in cui verrà il cavallo marino. Quanto a me, ti prometto di accompagnarti, quando tutto sarà finito, dal nostro re Mihragiàn e di farti conoscere il nostro paese benedici Allah, il quale ha fatto sì che io t'incontrassi, perché senza di me tu saresti morto di tristezza e di solitudine su quest'isola e nessuno dei tuoi amici e dei tuoi parenti avrebbe più saputo nulla di te. "
Invocai su di lui le benedizioni di Allah e lo ringraziai per la sua cortesia; e mentre stavamo ancora parlando, ecco che uscì dal mare lo stallone; si guardò intorno e, dopo aver cacciato un forte nitrito, saltò sulla cavalla e la coprì. Quando ebbe terminato smontò dalla giumenta e voleva portarsela via con sé, ma quella non poteva muoversi a causa del paletto, e tirava calci e nitriva. In quel momento uscì fuori dalla caverna il guardiano della giumenta con in mano una spada e uno scudo che percuoteva facendo un grande fracasso. E intanto andava chiamando i suoi compagni che sbucavano di sotto terra da tutte le parti, anch'essi gridando e facendo baccano. Allora lo stallone impaurito lasciò la giumenta e tuffatosi nelle acque sparì sotto la superficie del mare. Quando tutto fu finito, anche gli altri palafrenieri, che recavano a mano una giumenta ciascuno, mi vennero vicino e mi chiesero chi fossi e di dove venissi. Io raccontai a loro tutta la mia storia, ed essi si felicitarono con me, poi stesero per terra la tovaglia e ci rifocillammo. Dopo mangiatO mi fecero salire su una delle loro cavalle, e così viaggiammo fino a che non giungemmo nella città dove abitava il re Mihragiàn. Giunti che fummo a destinazione, i palafrenieri si recarono dal loro sovrano e lo informarono del mio arrivo, e questi chiese che io gli fossi condotto dinanzi. Il re Mihragiàn mi salutò con molta amicizia, dandomi il benvenuto, poi mi chiese di raccontargli la mia straordinaria avventura e quando ebbi finito esclamò: " Per Allah, figlio mio, la tua salvezza è davvero un fatto miracoloso! Se tu non fossi destinato a vivere a lungo, non saresti scampato al naufragio; sia lodato Allah che ti ha tratto in salvo! " Ciò detto, mi parlò con amicizia e considerazione, colmandomi di doni e di onori, e mi nominò anche capo del porto incaricandomi di tenere il registro di tutte le navi che entravano e uscivano. Così io presi a frequentare regolarmente il sovrano, il quale non mancava di dimostrarmi la sua benevolenza preferendomi a tutti gli altri suoi intimi e ricoprendomi di vesti preziose. Salii a tal punto nella sua stima che la gente, quando aveva bisogno di qualche cosa, chiedeva a me di intercedere presso il sovrano. Nonostante tutto questo, però, non avevo dimenticato il mio paese e, ogni volta che mi trovavo a passare per il porto e vedevo giungere una nave, mi affrettavo a interrogare ì marinai sulla mia città, chiedendo loro se avessero notizie di Baghdad. E invariabilmente quelli mi rispondevano di non aver mai sentito nominare una città simile e di non sapere nemmeno dove si trovasse. Mi convinsi così che non avrei mai più veduto il mio paese e avrei dovuto finire i miei giorni in terra straniera. Un giorno, recatomi a trovare il re Mihragiàn, lo trovai in compagnia di alcuni signori indiani i quali mi chiesero notizie del mio paese ed io chiesi ad essi notizie del loro. Costoro mi dissero che gli indiani erano tutti divisi in caste,e che le caste più importanti erano quella degli Kshatria, composta da uomini nobili e giusti che non commettevano mai soprusi né facevano violenza a nessuno, e quella dei Bramani, i quali sono della gente che non beve vino ma ama trascorrere la vita in lieta serenità e possiede cammelli, cavalli ed armenti. Mi dissero anche che il popolo indiano è diviso in settantadue caste, che non hanno rapporti fra loro, il che mi stupì grandemente.
Fra le altre cose che vidi nelle terre del re Mihragiàn, c'era un'isola chiamata Kasil, dove ogni notte e per tutta la notte si sentivano suonare tamburi e tamburelli; ma sia gli abitanti delle isole vicine, sia i viaggiatori mi assicurarono che il popolo di quell'isola era composto da gente seria ed assennata. In quel mare vidi anche un pesce lungo duecento cubiti e molto temuto dai pescatori; vidi anche un altro pesce che aveva la testa simile a quella di un gufo e molte altre cose rare e meravigliose che sarebbe troppo lungo riferire. Occupavo così il mio tempo visitando le isole, finché un giorno, che me ne stavo nel porto con il mio bastone in mano secondo l'abitudine che avevo preso, osservai una grande nave carica di mercanti che entrava in porto. Quando la nave si fu accostata alla banchina che è sotto le mura della città, il capitano ordinò di ammainare le vele e di ormeggiare il bastimento. Ciò fatto, misero fuori una passerella e i marinai cominciarono a scaricare le mercanzie mentre io, che stavo lì accosto, ne prendevo nota.
Alla fine chiesi al capitano: "E' rimasto niente altro nella tua nave? " E quello mi rispose: " Signore, nella stiva sono rimaste diverse balle di mercanzia il cui proprietario è annegato durante il viaggio. Noi le abbiamo prese in consegna ed ora ci ripromettiamo di venderle facendone registrare il prezzo, che consegneremo poi ai parenti dello scomparso quando torneremo a Baghdad, città della pace. " " E quale era il nome di questo mercante? " m'informai. " Si chiamava Sindbad il Marinaio, " ' rispose il capitano. Allora io lo guardai più dappresso e lo riconobbi e, gettato un gran grido, esclamai: " Capitano! Sappi che sono io quel Sindbad il Marinaio che viaggiava con voi; e quando il pesce si mosse e tu ci chiamasti, alcuni riuscirono a mettersi in salvo ed altri caddero in acqua; io fui fra questi. Ma Allah Onnipotente mi mise a portata di mano un mastello di legno al quale mi aggrappai, e i venti e le correnti marine mi gettarono su questa isola dove per grazia di Allah, incontrai alcuni servi del re Mihragiàn che mi condussero dal loro signore. E quando gli ebbi raccontato la mia storia egli mi colmò di benefici e mi nominò sovrintendente del porto. E in questa carica, come tu mi vedi, ho vissuto con larghezza, beneficato dal favore del sovrano. Perciò le balle che tu hai nella nave sono mie. "
Allora il capitano esclamò: < Non c'è maestà né potenza se non in Allah, il Glorioso, il Grande! Bisogna dire però che fra gli uomini non è rimasta né coscienza né buona fede! " " Capitano, " dissi io, " che significano queste parole, dopo che ti ho raccontato la mia storia? " E quello rispose: " Quando hai sentito che avevo nella stiva queste merci il cui proprietario era annegato, hai pensato bene di volertele prendere con l'inganno. Ma non potrai farlo, perché noi l'abbiamo visto sprofondare nel mare con i nostri occhi, insieme con molti altri passeggeri, nessuno dei quali si è salvato. Quindi, come puoi pretendere di essere il padrone di queste merci? " " Capitano, " dissi io, " ascolta tutta la mia storia senza prevenzioni e la verità ti apparirà manifesta. " Così gli raccontai per filo e per segno tutto quanto mi era accaduto da quando ero partito da Baghdad fino al momento in cui eravamo sbarcati sul pesce isola, dove per poco non facemmo naufragio tutti; gli rammentai anche alcuni particolari che solo io e lui potevamo conoscere. Allora il capitano e i mercanti si convinsero che dicevo la verità e si complimentarono con me per la mia salvezza. Dopo di che il capitano mi consegnò le merci, e su ogni balla trovai scritto il mio nome e vidi che non mancava nulla. Cercai allora fra le mie robe e trovai un oggetto prezioso, e con quello mi recai dal sovrano al quale lo offrii in omaggio raccontandogli tutto quanto era avvenuto poco prima al porto. Il re si stupì moltissimo di questo fatto e contraccambiò il mio regalo con ricchi doni. Nei giorni che seguirono, vendetti le mie merci guadagnando molto denaro e comprai altre mercanzie e oggetti tipici di quel paese. Poi, quando il capitano della nave mi annunciò che aveva intenzione di partire, andai dal re Mihragiàn, lo ringraziai della bontà che aveva avuto per me e gli chiesi licenza di tornare in patria, per rivedere il mio paese, la famiglia, gli amici. Il re acconsentì di buon grado e mi regalò altre merci e prodotti della sua terra; poi mi congedò affabilmente e io, sceso al porto, m'imbarcai. Poiché così piacque ad Allah, viaggiammo senza inconvenienti per giorni e per notti e alla fine giungemmo a Bassora, dove sbarcai, felice di essere tornato sano e salvo sul suolo natio. Rimasi alcuni giorni a Bassora, poi, portando meco grandi quantità di merci rare e preziose, partii per Baghdad, città della pace, ove entrai dopo un felice viaggio e, giunto nel mio quartiere e nella mia casa, amici e parenti vennero tutti a salutarmi e a rallegrarsi con me. Grazie al denaro che avevo, e alla gran copia di merci che avevo portato con me e che vendetti, acquistai eunuchi e concubine e schiavi e comprai case e giardini e terre, diventando cosi più ricco di quanto lo fossi stato prima. Allora, senza darmi alcun pensiero al mondo, mi misi a frequentare gli amici trascorrendo con loro il tempo, dimentico dei pericoli, degli affanni e delle pene che avevo patito durante quel viaggio avventuroso. Gustai ogni piacere ed ogni delizia, mangiai cibi raffinati e bevvi vini squisiti, e andai avanti in questo modo per parecchio tempo, ché le mie ricchezze mi permettevano di condurre questo treno di vita.
Questa è la storia del mio primo viaggio, e domani, se Allah lo vuole, vi racconterò il secondo dei miei numerosi viaggi. Quindi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero date a Sindbad il Facchino cento monete d'oro e gli disse: " La tua presenza ci è stata molto gradita oggi." Il Facchino lo ringraziò e, preso il dono, se ne andò per la sua strada, riflettendo su quanto aveva udito e non cessando di meravigliarsi per le cose incredibili che possono capitare a un uomo. Quando si fece giorno, tornò a casa di Sindbad il Marinaio, che lo ricevette con gentilezza e lo fece sedere accanto a sé. Non appena gli altri amici del padrone di casa furono arrivati, vennero approntate le mense e tutti mangiarono e bevvero a sazietà. Poi Sindbad il Marinaio cominciò a parlare raccontando con queste parole il
Secondo viaggio di Sindbad il Marinaio
Sappiate, fratelli miei, che io vivevo, come vi ho detto ieri, una vita serena ed agiata e non mi mancava nulla, fino a che un giorno nell'animo mio tornò a nascere il desiderio di viaggiare nei paesi degli uomini visitando isole e città nuove. Una volta che tale desiderio si fu insinuato nell'animo mio, non ebbi pace fino a che non presi la decisione. Raccolsi tutto il denaro liquido che avevo in casa, acquistai gran copia di merci e di provviste e scesi sulla riva del Tigri, dove vidi, in procinto di salpare, una bella nave nuova di zecca, con grandi vele di tela robusta, bene attrezzata ed equipaggiata. Insieme con altri mercanti salii a bordo, dopo aver fatto caricare tutte le mie merci, e quello stesso giorno salpammo le ancore. Navigammo felicemente per diversi mari, toccando porti e isole, e dovunque scendevamo a terra, salutati dalla gente, dai mercanti e dai notabili del luogo e concludevamo buoni affari vendendo e comprando.
Alla fine Allah volle che prendessimo terra in un'isola amena, tutta verdeggiante di alberi, dai quali pendevano frutti saporosi. L'aria di quest'isola era profumata dai fiori e risuonava per il canto di numerosi uccelli; dovunque scorrevano ruscelli d'acqua limpida e cristallina ma, per quanto cercassimo, non scorgemmo alcuna traccia di uomini: non vedemmo né abitanti né case. Il capitano mise la nave alla fonda e i mercanti scesero a terra per godersi la frescura degli alberi, il profumo dei fiori e il canto degli uccelli, lodando l'Unico, il Vittorioso, l'Onnipotente che aveva creato tali meraviglie. Anch'io scesi con gli altri portando a terra qualche provvista. e mi sedetti vicino ad una fonte mangiando quello che Allah mi aveva destinato. L'aria in quel luogo era così dolce, il profumo dei fiori cosi fragrante, che, dopo mangiato, mi stesi sull'erba per fare un pisolino. Quando mi svegliai, mi trovai solo; la nave era partita con tutti i suoi passeggeri e nessuno si era ricordato di me. Cominciai a cercare affannosamente a destra e a sinistra, ma non trovai né uomini né spiriti. Ero completamente solo su quell'isola disabitata. Mi prese allora un grande sconforto e la vescica del fiele fu sul punto di rompersi per l'amarezza e l'afflizione. Disperando di poter mai uscire da quel luogo mi dissi: " Cadi oggi e cadi domani, la giara finisce per rompersi! La prima volta riuscii a salvarmi perché qualcuno mi ricondusse nei paesi abitati, ma questa volta temo proprio che non vi sia speranza per me! ".
In un accesso di rabbia contro me stesso, mi misi a piangere e a gemere, rimproverandomi di avere voluto affrontare ancora una volta le incertezze e i pericoli di un viaggio per mare, quando a casa non mi mancava nulla e avevo tutto ciò che potevo desiderare e trascorrevo una vita serena e felice. Mi pentii amaramente di aver lasciato Baghdad, soprattutto dopo aver fatto l'esperienza del primo viaggio, durante il quale poco era mancato ch'io non perdessi la vita. Allora esclamai: " Noi siamo cose di Allah ed a lui dobbiamo ritornare! " Sentendomi impazzire, quasi in preda a un sortilegio, cominciai a camminare avanti e indietro senza sapere dove andassi né che cosa facessi. Alla fine mi arrampicai su un albero altissimo e cominciai a scrutare l'orizzonte, ma non vidi altro che cielo e mare, alberi e uccelli, isole e sabbia. Tuttavia, dopo un poco, guarda che ti riguarda, scorsi in lontananza verso l'estremità dell'isola una forma biancheggiante. Scesi dall'albero e mi diressi a quella volta e, quando fui abbastanza vicino, mi accorsi che quell'oggetto bianco era una grande cupola che si levava alta verso il cielo. Cominciai à girarle intorno, ma non riuscii a trovare né porte né pertugi. Cercai di arrampicarmi, ma la cosa mi riuscì impossibile, perché la cupola era straordinariamente liscia e non offriva alcun appiglio. Tracciai un segno per terra nel luogo in cui mi trovavo e girai attorno alla cupola constatando che la sua circonferenza era di buoni cinquanta passi. Mentre me ne stavo lì a lambiccarmi il cervello sul modo migliore di entrare in quella cupola, ecco che d'un tratto il sole si oscurò, come se una grande nuvola lo avesse coperto. La cosa mi meravigliò moltissimo perché eravamo d'estate e il cielo era limpido e terso; allora levai in alto gli occhi e vidi un uccello dalla mole enorme e dalle ali larghissime che, volando nell'aria, aveva nascosto completamente il sole all'isola. A quella vista il mio stupore non ebbe limiti; ma subito ricordai di aver sentito viaggiatori e pellegrini raccontare di un uccello enorme, chiamato Rukh, che abitava in una certa isola e che nutriva i suoi piccoli con gli elefanti. Non ebbi più dubbi che la cupola che aveva attirato la mia attenzione fosse un uovo del Rukh. Mentre io non finivo di meravigliarmi per le opere dell'Onnipotente, l'uccello si posò sulla cupola e cominciò a covarla, accovacciandosi con le zampe tese indietro. In questa posizione si addormentò, sia lode all'Insonne!
Quando fui sicuro che l'uccello dormiva, mi avvicinai, sciolsi il turbante e lo attorcigliai facendone una corda robusta e molto resistente e me ne legai strettamente un capo alla vita; l'altro capo lo assicurai a una zampa dell'uccello dicendomi: " Chissà che questo uccello non mi porti in una terra dove siano uomini e città; questo sarà meglio che rimanere in un'isola deserta. " Quella notte non dormii per tema che l'uccello volasse via all'improvviso. Non appena apparve in cielo il primo chiarore dell'alba, il Rukh si alzò dall'uovo, spalancò le enormi ali e, gettando un grido assordante, si levò in volo trascinandomi con sé. Salì e salì tanto in alto che pensai avesse raggiunto il limite del cielo; poi, a poco a poco cominciò a discendere fino a che prese terra in cima ad un'alta collina.
Non appena mi sentii la terraferma sotto i piedi, mi affrettai, con mani tremanti dalla paura, a scioglierne dal Rukh temendo che si accorgesse di me. Tuttavia l'uccello non mi prestò alcuna attenzione, ma si guardò in giro e dopo un poco vidi che aveva afferrato fra gli artigli qualcosa. Guardai più attentamente e mi accorsi che si trattava di un serpente dalle proporzioni smisurate. Tenendo ben stretta fra le zampe la sua preda, l'uccello si levò di nuovo in volo e dopo poco sparì dalla vista. Pieno di meraviglia per ciò che mi era capitato e che avevo visto, avanzai fino al ciglio della collina e vidi al miei piedi una valle ampia e profonda, circondata da monti la cui altezza sarebbe impossibile descrivere; basterà dire che erano tanto alti che l'occhio umano non riusciva a scorgerne le vette. Quando ebbi visto il luogo in cui mi trovavo, esclamai: " Avesse voluto il cielo che fossi rimasto su quell'isola! Quanto era meglio di questo deserto! Per lo meno laggiù c'era frutta da mangiare e acqua da bere, mentre qui non vi sono né alberi, né frutti, né ruscelli. Ma non vi è né grandezza né potenza se non in Allah, il Glorioso! Mi par proprio che il mio destino sia quello di scampare da un pericolo per cadere in un pericolo maggiore. "
Tuttavia mi feci coraggio e scesi verso la valle per esplorarla meglio. E fu allora che mi accorsi che il fondo della valle era fatto di diamanti, ma vidi anche, purtroppo, che il luogo era popolato di serpenti grossi come tronchi di palma, capaci di mangiare con un solo boccone un elefante o un bufalo, e tutti questi serpenti di giorno si nascondevano per paura dell'uccello Rukh e di notte uscivano fuori dai loro antri. Vedendo ciò, non potei fare a meno di esclamare: " Per Allah, quanta fretta ho avuto di precipitarmi verso la morte! " Poiché il giorno stava per finire, pensai di cercare un nascondiglio dove passare la notte al riparo da quei serpenti spaventosi. Guarda e guarda, alla fine scorsi una caverna con una entrata stretta; mi infilai in quel pertugio, feci rotolare una grossa pietra bloccandone l'ingresso e mi sedetti per terra tirando un sospiro di sollievo e dicendomi: " Se Dio vuole, per questa notte sono in salvo; domani non appena farà giorno uscirò e vedrò quello che il destino tiene in serbo per me! ".
Ciò detto mi guardai intorno e allora i capelli mi si rizzarono sulla testa dalla paura e cominciai a sudare freddo, perché in fondo alla caverna c'era un enorme serpente acciambellato, intento a covare le sue uova. Mi raccomandai allora ad Allah misericordioso e, cercando di non muovermi e di non fare rumore, mi rincantucciai in un angolo e trascorsi la nottata in preda al timore. Appena si fece giorno, tolsi la pietra dall'apertura dell'antro e uscii fuori, barcollando come un ubriaco, stordito dall'insonnia, dalla fame e dalla paura. Cominciai a girare per la valle pensando al modo di uscirne, quand'ecco che d'un tratto mi vidi cadere davanti ai piedi una bestia scannata. Alzai gli occhi e non vidi nessuno. Me ne stavo ancora stupito da quest'altro fenomeno , quando mi ricordai di aver sentito raccontare una volta da viaggiatori e mercanti che le montagne di diamanti sono luoghi pieni di pericoli e inaccessibili, ma che coloro i quali cercano i diamanti usano uno stratagemma per appropriarsene. Dall'alto di un monte gettano in fondo alla valle pecore scannate e quarti di bue, e le pietre di diamante che sono in fondo alla valle si attaccano alla carne ancora fresca. I mercanti rimangono poi in attesa fino a che, a giorno fatto, non sopraggiungono aquile ed avvoltoi che, scorgendo la preda, la afferrano con gli artigli e se la portano in cima al monte. I mercanti piombano allora addosso agli uccelli emettendo alte grida e spaventandoli, così che quelli volano via. Allora essi tolgono le pietre di diamante rimaste attaccate alla carne fresca e se ne tornano ai loro paesi con il carico prezioso lasciando la carne alle aquile e agli avvoltoi. Né pare vi sia altro mezzo, se non questo, per impadronirsi dei diamanti.
Così, quando mi vidi cadere davanti quell'animale sgozzato, mi ricordai di questa storia e subito corsi a riempirmi le tasche, le pieghe dell'abito, il turbante con le pietre più belle che riuscii a trovare. Mentre ero intento a far ciò, ecco che mi vidi cadere davanti ai piedi un'altra bestia, più grande, sgozzata. Allora mi legai ad essa con il turbante e mi distesi per terra, lasciando che la carcassa dell'animale mi coprisse tutto. Mi ero appena messo in posizione, quand'ecco una grossa aquila calò giù dal cielo, afferrò la carne con gli artigli e volò via trasportando anche me, che stavo aggrappato alla carcassa dell'animale ucciso. E tanto volò che giunse in cima a un monte, dove si posò. E stava per azzannare l'animale, sotto il quale io ero nascosto, quand'ecco si udirono strepiti e grida e l'aquila impaurita volò via. Allora io mi sciolsi dalla carcassa e mi alzai in piedi. Ed ecco che apparve il cercatore di diamanti che aveva gettato in fondo alla valle quella carcassa e vedendomi lì in piedi si prese paura non sapendo se io fossi un uomo o uno spirito. Poi si fece coraggio, si avvicinò alla bestia e non trovandovi alcun diamante attaccato cominciò a gemere e a lamentarsi battendo il petto: " Povero me! Povero me! Solo nella maestà e nella potenza di Allah troviamo rifugio contro Satana il lapidato! Ahimè, povero me! Che faccenda è questa? " Allora io mi avvicinai a lui ed egli mi disse: " Chi sei tu e come mai ti trovi in questo luogo? " E io: " Non temere. Io sono un uomo e non uno spirito: sono un onest'uomo e faccio il mercante. La mia storia è incredibile, le mie avventure sono meravigliose e il modo in cui sono giunto qui è prodigioso. Dunque sta' di buon animo e non temere nulla da me; e anzi, per dimostrarti la mia buona disposizione, ti darò tanti diamanti quanti tu non ne avresti mai potuti trovare attaccati a questa carne e più belli di quelli che tu abbia mai raccolto. Perciò, non temere nulla. " A queste parole l'uomo si rallegrò e mi ringraziò e mi benedisse. Poi ci mettemmo a chiacchierare insieme, fino a che gli altri cercatori, sentendomi discorrere con il loro compagno, si fecero avanti e mi salutarono. Allora io raccontai tutta la mia storia e dissi delle sofferenze che avevo patito e del modo in cui ero giunto in fondo a quella valle. Quindi diedi al padrone della bestia macellata un certo numero di pietre fra quelle che avevo indosso ed egli fu molto contento ed invocò su di me ogni benedizione dicendo: " Allah deve averti decretato una nuova vita, perché nessuno prima di te è mai sceso in quella valle e ne è uscito vivo. Sia dunque lodato Allah per la tua salvezza. " Passammo la nottata in un luogo sicuro e piacevole, mentre io mi rallegravo per essere scampato alla valle dei serpenti e per essere giunto fra persone civili. La mattina di poi ci mettemmo in viaggio, attraversando l'imponente catena di monti e vedendo molti serpenti nella valle, finché alla fine giungemmo in una bellissima isola, dove c'era un giardino con grandissimi alberi di canfora, ognuno dei quali, con i suoi rami, poteva fare ombra a cento uomini ' Quando gli abitanti del posto hanno bisogno di canfora, con un lungo ferro fanno un buco nella parte superiore del tronco, ed ecco che dal buco esce acqua di canfora, che sarebbe la linfa dell'albero, ed essi la raccolgono in grandi recipienti dove subito diventa densa come resina. Però dopo questa operazione l'albero muore ed è buono solo per farne legna da ardere. In questa stessa isola c'è una specie di bestia selvatica, chiamata karkadann, che pascola nei prati come da noi le vacche e i bufali, ma il suo corpo è più grande di quello di un cammello e si ciba di foglie d'alberi e di arbusti. È, un animale notevole, con un corno grande e grosso, lungo dieci cubiti, piazzato in mezzo alla fronte. e se questo corno si spacca in due dentro vi si vede la figura di un uomo. Viaggiatori e mercanti dicono che questa bestia, chiamata karkadann, ha tanta forza che è capace di portare infilzato sul corno un elefante e continuare a pascolare per l'isola e lungo la costa senza avvedersene, fino a che l'elefante muore e il suo grasso, sciogliendosi al calore del sole, scorre negli occhi del karkadann e lo acceca. Allora l'animale si getta a terra sulla spiaggia adagiato su un lato e poi arriva il grande uccello Rukh, che lo afferra tra gli artigli e lo porta ai suoi piccoli i quali si cibano del karkadann e dell'elefante che ha infilzato sul corno.
In quell'isola vidi anche molte specie di buoi e di bufali che non hanno nulla a che vedere con quelli che si trovano nei nostri paesi. Colà vendetti una parte dei diamanti, cambiandoli in dinàr d'oro e in dirham d'argento, e con altri comprai alcuni prodotti del luogo; poi, dopo aver caricato su bestie da soma le merci, continuai a viaggiare con i mercanti di valle in valle e di città in città comprando e vendendo, osservando i paesi stranieri e le opere e le creature di Allah, fino a che giungemmo alla città di Bassora dove sostammo qualche giorno; dopo di che, congedatomi dai mercanti, continuai il mio viaggio verso Baghdad. Qui giunto, mi riunii agli amici e ai parenti, dispensai il denaro in elemosine ed opere di carità e feci ai miei amici molti regali con gli oggetti che avevo portato dai paesi stranieri. Poi, col cuore leggero e con l'animo sgombro da ogni affanno, pensai solo a mangiare bene, a bere meglio e a trascorrere il tempo serenamente. E tutti quelli che udivano del mio ritorno a casa venivano a trovarmi e mi facevano una quantità di domande sulle avventure che avevo avuto e sui paesi stranieri che avevo visto. ed io raccontavo loro tutto ciò che mi era successo e quello che avevo sofferto, e questo era motivo per tutti di grande gioia e non v'era chi non si rallegrasse perché ero tornato sano e salvo. In tal modo si conclude la storia del mio secondo viaggio e domani, se Allah lo vuole, vi racconterò quello che mi accadde durante il terzo viaggio.
Quando i presenti ebbero finito di esprimere la loro meraviglia per questo racconto, furono portati i cibi e tutti cenarono abbondantemente. Poi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero date cento monete d'oro a Sindbad il Facchino, il quale le prese, ringraziò e andò ad accudire alle sue faccende, continuando a stupirsi per le avventure capitate a Sindbad il Marinaio e lodando in cuor suo Allah che lo aveva salvato e benedicendo il suo benefattore.
Il giorno di poi Sindbad il Facchino si alzò e, dopo aver recitato la preghiera del mattino, si recò a casa di Sindbad il Marinaio, così come questi gli aveva detto di fare, ed entrato gli augurò il buon giorno. Il mercante gli diede il benvenuto e lo fece sedere accanto a sé. Poi arrivarono i soliti commensali e, dopo che tutti ebbero mangiato e bevuto in letizia, Sindbad il Marinaio disse: Fratelli miei, ascoltate il racconto che sto per farvi, perché esso è ancor più meraviglioso di quelli che avete udito. Ma Allah solo conosce le cose che la Sua onniscienza ha nascosto all'uomo! Ascoltate dunque il
Terzo viaggio di Sindbad il Marinaio
Come vi dicevo ieri, tornai dal secondo viaggio felice per lo scampato pericolo e ancor più ricco di quando ero partito, perché Allah mi aveva concesso di guadagnare tanto denaro da poter compensare gli averi che avevo perduto. Rimasi così per qualche tempo nella città di Baghdad, godendomi l'agiatezza e la felicità, fino a quando l'animo mio fu di nuovo preso dal desiderio di viaggi e di avventure ed altro il mio cuore non desiderò se non d'intraprendere nuovi traffici e di guadagnare altro denaro. Perché il nostro cuore è così fatto che sempre ci sprona verso il male. Presa la mia decisione, misi insieme una grande quantità di merci e mi recai a Bassora, dove trovai nel porto una bella nave pronta a salpare, con la ciurma al completo e numerosi mercanti, uomini stimati e ricchi. Mi imbarcai con loro e spiegammo le vele augurandoci l'un l'altro, con la benedizione e l'aiuto di Allah Onnipotente, di poter viaggiare sicuri e tornare a casa prosperi e in buona salute.
In effetti il nostro viaggio cominciò sotto i migliori auspici : viaggiammo da un mare all'altro, da un'isola all'altra, da una città all'altra, comprando e vendendo in ogni porto in cui scendevamo, visitando i luoghi e istruendoci sulle cose nuove che vedevamo. Fino a che un giorno, mentre navigavamo in alto mare là dove le onde cozzano l'una contro l'altra, vedemmo il capitano della nave, che se ne stava sul ponte intento a scrutare l'oceano in tutte le direzioni, lanciare un gran grido e darsi degli schiaffi in faccia, e strapparsi i peli della barba e stracciarsi i vestiti e ordinare all'equipaggio di ammainare le vele e di gettare le ancore. Noi gli chiedemmo: " Padrone, cos'è che non va? " " Sappiate, fratelli miei, che Allah vi preservi, che il vento ci ha preso la mano e ci ha portato fuori dalla nostra rotta in mezzo all'oceano; e il destino, per nostra disgrazia, ha voluto che giungessimo sul Monte delle Scimmie, un luogo dal quale nessuno è mai tornato vivo; qualcosa in cuore mi dice che siamo tutti perduti. " Aveva appena finito di pronunciare queste parole che le scimmie ci furono addosso, numerose come una torma di cavallette, mentre altre invadevano la spiaggia dell'isola gettando urla che ci facevano gelare il sangue. Queste scimmie erano creature spaventevoli e selvatiche, coperte di pelo nero, piccole (non erano più alte di quattro Capanne), con gli occhi gialli e le facce nere. Nessuno conosce il loro linguaggio né sa a quale razza appartengano, ed esse odiano la vicinanza degli uomini. A causa del loro numero, noi avevamo paura di scacciarle con i bastoni, perché pensavamo che se ne avessimo colpita o uccisa qualcuna le altre ci sarebbero piombate addosso e ci avrebbero dilaniato. Rimanemmo così impietriti lasciando che facessero quello che volevano. Le scimmie, che erano salite a bordo, ruppero i cavi dell'ancora e tutte le gomene della nave, così che questa, sbattuta dal vento, andò ad arenarsi sulla spiaggia dell'isola. Allora esse afferrarono mercanti e passeggeri e li gettarono a terra; quindi, impadronitesi delle nostre mercanzie, si allontanarono con la nave andando chissà dove. Rimanemmo così abbandonati su quell'isola, cibandoci con i frutti che trovavano e con le erbe dei campi e bevendo l'acqua dei ruscelli, fino a che un giorno scorgemmo nell'interno dell'isola quella che sembrava essere una casa abitata. Ci dirigemmo subito da quella parte e quando fummo più vicini vedemmo che si trattava di un castello, circondato da spesse mura, nelle quali si apriva una porta a due battenti di legno d'ebano. Poiché la porta era aperta, entrammo e ci trovammo in un grande spiazzo, tutt'intorno al quale si aprivano altissime porte, anch'esse aperte, mentre a un'estremità scorgemmo una grande panca di pietra con accanto bracieri e arnesi da cucina e tutt'intorno numerose ossa. Non _vedemmo però nessuno degli abitanti del castello e di ciò ci meravigliammo moltissimo. Ci sedemmo nello spiazzo del castello e, per la gran stanchezza, ci addormentammo subito. Dormimmo fino al tramonto del sole, quando fummo risvegliati di soprassalto sentendo la terra che tremava sotto di noi e nell'aria il boato di un tuono. Alzammo gli occhi al cielo e vedemmo scendere verso di noi, dall'alto del castello, una creatura enorme in sembianze d'uomo, nera di pelle, alta come una palma da datteri, con gli occhi come tizzoni ardenti, zanne simili a quelle dei cinghiali e una bocca grande come la; vera d'un pozzo. Le labbra, simili a quelle d'un cammello, gli penzolavano giù fin sul petto; le orecchie erano due sventole enormi che arrivavano fino alle spalle, mentre le unghie delle, mani parevano artigli di leone. Quando vedemmo questo orribile gigante, ci sentimmo venir meno e rimanemmo impietriti dalla paura. Giunto nello spiazzo, il gigante si sedette per un po' sulla panca, poi si alzò, si avvicinò a noi e mi prese per un braccio scegliendo me fra tutti i ' miei compagni mercanti. Mi prese in mano e cominciò a girarmi e rigirarmi, tastandomi come fa il macellaio quando sceglie una pecora da scannare, ed io in mano sua ero appena un bocconcino. Tuttavia dovette trovarmi non abbastanza grasso per i suoi gusti perché, dopo avermi esaminato ben bene, mi lasciò andare e prese un altro, con il quale fece la stessa cosa e così, uno dopo l'altro, ci prese e ci tastò tutti quanti fino a che non arrivò al capitano della nave. Questi era un pezzo d'uomo robusto e bene in carne e piacque al gigante, il quale lo afferrò, come fa il beccaio con la pecora, lo gettò a terra, poi gli pose un piede sul collo e glielo spezzò. Quindi prese uno spiedo, lo infilò nel sedere del capitano, e glielo fece uscire dalla testa, poi accese un bel fuoco, vi pose sopra lo spiedo e continuò a girarlo finché la carne non fu cotta. Quando il capitano fu ben rosolato, lo tolse dal fuoco e dallo spiedo, se lo mise davanti e cominciò a spezzarlo, come facciamo noi con una pollastra, strappando la carne con le unghie e mangiandosela. Si mangiò così tutto il capitano, spolpando ben bene le ossa che gettò da una parte; poi, ben sazio, si sdraiò sulla panca e si addormentò mettendosi a russare che sembrava un montone sgozzato. Quando spuntò il giorno si alzò e se ne andò per i fatti suoi.
Appena fummo certi che se ne fosse andato, cominciammo a parlare fra di noi, piangendo e compatendoci per la nostra sorte, e dicendo: " Volesse il cielo che fossimo annegati o che ci avessero sbranati le scimmie! Sarebbe stato sempre meglio che finire arrostiti sui carboni; questa, per Allah, è una morte ben disgraziata e orribile! Ma quello che Allah vuole deve avvenire e non vi è maestà e potenza se non in lui, il Glorioso, il Grande! Ormai non v'è dubbio, faremo una fine miserevole e nessuno saprà nulla di noi; da questo luogo non riusciremo mai a fuggire. " Poi ci alzammo e cominciammo a vagare per l'isola, cercando un posto dove nasconderci o una via di scampo. Ma non era la morte che ci spaventava, bensì il fatto di finire arrosto e di essere mangiati. Purtroppo non riuscimmo a trovare alcun nascondiglio, e così a sera tornammo al castello e ci sedemmo nello spiazzo, mezzi morti di paura. Ed ecco che sentimmo tremare la terra ed arrivò il gigante nero il quale, come aveva fatto la sera innanzi, si avvicinò a noi e prese a tastarci fino a che trovò uno che gli parve abbastanza grasso e fece con lui quello che aveva fatto col capitano il giorno prima. E dopo che ebbe mangiato si sdraiò sulla panca e, si addormentò mettendosi a russare. E all'alba del giorno dopo si alzò e se ne andò per le sue faccende. Quando fummo rimasti soli, ci raccogliemmo in circolo e cominciammo a parlare, e uno di noi disse: " Per Allah, sarebbe meglio se ci gettassimo in mare e annegassimo, piuttosto che morire arrostiti; perché questa è una morte abominevole! " E un altro soggiunse: " Ascoltate le mie parole! Dovremmo trovare il modo di ucciderlo. Solo così potremo liberarci di questa minaccia e liberarne anche tutti i musulmani! " Allora io mi alzai e dissi: " Ascoltatemi, fratelli miei, se l'unica via di scampo è quella di uccidere questo gigante, dovremo per prima cosa costruirci una zattera e tenerla pronta sulla riva del mare. Perché se noi riusciremo ad ucciderlo potremo fare due cose: imbarcarci e cercare di raggiungere i paesi civili, oppure rimanere su quest'isola in attesa che qualche nave ci scorga e ci raccolga. Ma se per caso non riusciamo ad ucciderlo, allora l'unica cosa che possiamo fare è quella di correre alla spiaggia, saltare sulla zattera e cercare di fuggire via. In un modo o nell'altro, una zattera ci è indispensabile. " Udite le mie parole, tutti furono d'accordo, così ci mettemmo all'opera. Costruimmo alla meglio una zattera, vi caricammo su delle provviste, la nascondemmo vicino alla spiaggia e poi tornammo al castello. Quando arrivò la sera, ecco che di nuovo la terra cominciò a tremare e il gigante ci fu addosso ringhiando come un cane rabbioso. Come aveva fatto nelle due sere precedenti, scelse uno di noi, lo uccise, lo arrostì e lo mangiò, poi si sdraiò sulla panca e si mise a dormire. Allora noi non appena fummo sicuri che dormiva della grossa, afferrammo due spiedi e li ponemmo sul fuoco lasciandoceli finché non furono bene arroventati. Poi li prendemmo e glieli ficcammo negli occhi, spingendo con tutta la forza delle nostre braccia, fino a che gli occhi non gli scoppiarono per il calore ed egli diventò completamente cieco. Per il grande dolore, il gigante si svegliò lanciando un grido che ci fece quasi morire di paura, poi balzò in piedi e cominciò a cercarci; ma non poteva trovarci, perché era cieco e noi fuggivamo da tutte le parti. Poiché non poteva nulla contro di noi, il gigante se ne uscì dal castello e noi gli tenemmo dietro per un po', quindi ci recammo nel luogo dove era nascosta la zattera dicendoci: " Rimaniamo qui fino a sera, e se costui non torna vorrà dire che è morto e che noi potremo restare su quest'isola in tutta sicurezza; se poi dovesse tornare, metteremo subito la zattera in acqua e fuggiremo via. " Avevamo appena finito di dire queste parole, quand'ecco che ricomparve il gigante cieco accompagnato da un altro gigante, se possibile ancor più orrendo e spaventoso di lui. Non appena li vedemmo ci precipitammo sulla riva del mare, montammo sulla zattera e fuggimmo via. Quelli intanto, accompagnandosi con orribili grida, cominciarono a scagliarci addosso massi di ogni forma e dimensione. E alcuni cadevano in acqua, ma altri colpivano la zattera. Alla fine, come Dio volle, ci trovammo in alto mare e fuori della loro portata. Così, ci guardammo intorno e vedemmo che eravamo rimasti solo in tre, perché gli altri erano morti tutti, colpiti dai massi. Continuammo ad andare in balia delle onde affranti e stremati, e tuttavia cercando dì rincuorarci a vicenda, fino a che i venti ci gettarono su un'isola, dove c'erano alberi, uccelli e corsi d'acqua. Ci inoltrammo per un po' verso l'interno, poi mangiammo i frutti, degli alberi e bevemmo l'acqua dei ruscelli, e al calar della sera ci gettammo per terra e subito ci addormentammo tanta era la fatica che avevamo addosso. Avevamo appena chiuso gli occhi, quand'ecco fummo risvegliati da un sibilo e vedemmo un serpente enorme e mostruoso che ci aveva circondati con le sue spire e. afferrato uno di noi, lo aveva inghiottito fino alle spalle. Poi inghiotti anche il resto e noi sentimmo le costole del nostro compagno che si spezzavano nel ventre dell'animale. Fatto questo il serpente se ne andò, lasciandoci sbalorditi per quello che era capitato al nostro compagno. Quando ci riavemmo dallo stupore, cominciammo a dire: " Per Allah, questo è un fatto meraviglioso! Ogni volta siamo minacciati da una morte peggiore della precedente. Ci rallegrammo di essere scampati alle scimmie e cademmo nelle mani del gigante nero; ci rallegrammo di essere sfuggiti al gigante nero, ma ora ci pare di essere minacciati da una morte ben peggiore. Non v'è forza se non in Allah! Ma, per l'Onnipotente, come faremo a evitare questo abominevole mostro serpentino? " Girammo tutto il giorno per l'isola mangiando frutti e bevendo l'acqua dei ruscelli, e quando venne la sera, ci arrampicammo su un albero altissimo e ci accingemmo a dormire. Ma ecco che arrivò il serpente e cominciò a guardare a destra e a sinistra, fino a che ci vide in cima all'albero; allora, avvolgendosi con le spire intorno al tronco, cominciò a salire e raggiunse il mio compagno, che si trovava su un ramo più basso, e con un sol colpo lo inghiottì fino alle spalle, poi con un altro colpo lo inghiotti tutto. Io me ne stavo lì terrorizzato e sentivo le ossa del mio compagno scricchiolare nel ventre dell'animale ed ero incapace di distogliere gli occhi da quello spettacolo orrendo. Dopo che ebbe inghiottito il mio compagno, il serpente se ne andò come era venuto. Il mattino dopo, quando fui sicuro che il serpente se ne era andato, scesi dall'albero, più morto che vivo dalla paura, e pensai sul momento di gettarmi in mare e por fine ad ogni affanno; ma non lo feci, perché la vita è l'ultima cosa alla quale si rinuncia. Stetti così per un poco a riflettere, poi scelsi cinque rami d'albero, larghi e lunghi, e due me li legai in croce ai piedi, due me li legai ai fianchi e il quinto me lo legai sulla testa per il largo. Poi mi sdraiai per terra protetto da questa specie di gabbia e attesi. Ed ecco che, scesa la sera, arrivò il serpente, il quale mi vide e si avvicinò; ma non poté inghiottirmi a causa dei rami che mi proteggevano. Allora mi girò intorno e cercò d'inghiottirmi dalla parte dei piedi, ma anche di là non riuscì a far nulla per via dei rami d'albero legati in croce. E mentre quello mi girava intorno e studiava il modo d'ingoiarmi, io stavo lì e lo fissavo con gli occhi sbarrati dal terrore. Andò avanti così per tutta la notte, con il serpente che cercava di ingoiarmi e i rami che glielo impedivano. Quando spuntò il sole, il serpente se ne andò, soffiando per la rabbia. Allora io mi sciolsi dalle tavole, mi alzai in piedi e ricominciai a camminare per l'isola finché, arrivato in cima a un promontorio, mentre guardavo distrattamente il mare, vidi in lontananza una imbarcazione e subito raccolsi un ramo frondoso e cominciai ad agitarlo gridando. Quando quelli della nave scorsero il ramo che io stavo agitando, si meravigliarono fortemente, perché sapevano che l'isola era disabitata; tuttavia si dissero che avrebbero fatto bene a venire a terra perché poteva anche darsi che si trattasse di un uomo. Così si avvicinarono fino al punto di udire le mie grida e di scorgermi distintamente. Allora scesero a terra, mi presero con loro e mi portarono sulla nave, dove mi rifocillarono e mi diedero dei vestiti per coprirmi. Io raccontai loro tutto quello che mi era accaduto ed essi si stupirono grandemente; e insieme lodammo l'altissimo per la protezione che mi aveva accordato. Quanto a me, dopo essere stato tante volte così vicino alla morte, trovarmi in salvo mi pareva un sogno. Per il volere di Allah, navigammo così con vento favorevole fino a che giungemmo in un'isola chiamata Salàhita, ricca di legna di sandalo, dove il capitano gettò l'ancora. E i mercanti che erano a bordo sbarcarono le loro merci per vendere e comperare. Allora il capitano della nave venne da me e mi disse: " Ascoltami bene, tu sei straniero e povero e le peripezie che ci hai raccontato mi hanno commosso; ho pensato perciò di favorirti in modo che tu possa tornare a casa tua, così che pregherai per me e mi benedirai per il resto dei tuoi giorni " " Quanto -a questo " risposi io, " avrai le mie preghiere. " Allora il capitano proseguì: " Sappi che imbarcato con noi c'era un mercante che si è perduto e del quale non sappiamo più se sia vivo o se sia morto perché non ce ne sono più giunte notizie. Ho pensato di affidare a te le sue mercanzie acciocché tu le venda su quest'isola. Di quello che avrai guadagnato daremo a te una provvigione e il resto lo terremo da parte fino a che saremo arrivati a Baghdad, dove ci informeremo della famiglia di questo mercante e consegneremo a chi di ragione il denaro. E adesso dimmi, vuoi prenderti cura delle merci di questo mercante? " Io risposi: " Ascolto e obbedisco, signore, e ti ringrazio per la tua cortesia. " Allora il capitano ordinò ai marinai di scaricare anche le merci dell'altro mercante che erano rimaste a bordo e le affidò alla mia cura. Ma lo scrivano di bordo chiese al capitano: " Padrone, che merci sono queste e a nome di chi devo iscriverle nel registro? " E il capitano rispose: " Iscrivile al nome di Sindbad il Marinaio, di colui che era con noi a bordo della nave e che lasciammo sull'isola del Rukh senza averne più notizie. Voglio che questo straniero si prenda cura di queste cose e le venda, e sul guadagno che avrà fatto daremo a lui una provvigione; il resto lo porteremo a Baghdad e lo consegneremo al proprietario, se riusciremo a trovarlo, se no lo consegneremo alla sua famiglia. " Lo scriba assentì e rispose: " Il 'tuo ragionamento è saggio, o signore, e il tuo discorso è giusto. "
Quando io sentii che il capitano dava ordine di registrare quelle merci a nome di Sindbad il Marinaio, pensai dentro di me: " Per Allah! ma Sindbad il Marinaio sono io! " Tuttavia mi trattenni dal parlare subito. Aspettai che i mercanti Fossero scesi a terra,,quindi mi avvicinai al capitano e gli chiesi: Signore, sai per caso che specie d'uomo fosse questo Sindbad di cui mi hai affidato le merci per la vendita? " E il capitano mi rispose: " Di lui non so nulla, se non che era della città di Baghdad e si chiamava Sindbad, detto il Marinaio; lo abbandonammo per sbaglio su un'isola e di lui non abbiamo saputo più nulla. " questo punto non potei più trattenermi, gettai un gran grido ed esclamai: " 0 capitano, che Allah ti protegga! Sappi che io sono Sindbad il Marinaio, proprio quello che voi abbandonaste sull'isola del Rukh, e che non sono morto ma sono vivo, proprio come tu ora mi vedi! " Udendo le mie esclamazioni, gli uomini dell'equipaggio e i mercanti si radunarono subito intorno noi; allora io raccontai ad essi tutto quello che mi era capitato dal giorno in cui mi avevano abbandonato sull'isola del Rukh. Alcuni mi credettero, ma altri rimasero diffidenti. Ma ecco che uno in mezzo a loro si avanzò e disse: " Ascoltate, brava gente, non vi avevo forse raccontato di aver trovato un uomo attaccato alla carcassa di un animale che avevo gettato nella valle dei serpenti per raccogliere i diamanti? Ma quando io vi raccontai questa storia voi non mi credeste e mi deste del bugiardo. " " E vero, " dissero tutti, " tu ci hai raccontato questo fatto ma noi non ti abbiamo creduto. " Allora quell'uomo riprese: " Ebbene io vi dico, e Allah mi è testimone, che questo straniero è proprio l'uomo del mio racconto, ed è lui che mi regalò bellissimi diamanti ed insieme con lui viaggiai fino a Bassora. " Udendo le parole di quell'uomo, il capitano si avvicinò a me e mi chiese: " Se tu sei veramente Sindbad il Marinaio, saprai com'è il marchio che c'è sulle tue balle di merci. " Io gli dissi come era fatto il marchio e, in più gli rammentai alcuni fatti che erano intercorsi fra me e lui durante il viaggio. A queste parole il capitano si convinse che io ero davvero Sindbad il Marinaio e mi abbracciò e rallegrandosi per la mia salvezza disse: " Per Allah, signore, il tuo caso è davvero meraviglioso e la tua storia incredibile. Ma sia lode ad Allah, che ci ha fatto incontrare di nuovo e ti ha ridato il possesso dei tuoi beni! "
Allora io disposi delle mie mercanzie e le vendetti ricavandone grandi somme di denaro, del che fui molto contento. Andammo avanti così, a, vendere e a comperare in ogni isola che toccavamo, finché non giungemmo nella terra dell'Ind dove comperammo chiodi di garofano e zenzero e molte altre spezie, e di là ci portammo nella terra del Sind, dove pure facemmo buoni affari. E in questi paesi indiani vedemmo meraviglie senza numero, fra le quali un pesce simile ad una vacca, che alleva i piccoli nutrendoli alle mammelle come un essere umano; e con la sua pelle la gente del luogo ci fa delle pantofole; vidi anche animali marini simili ad asini, a cammelli, e tartarughe larghe venti cubiti. Vidi anche un uccello che nasce da una conchiglia marina e depone le uova sulla superficie del mare e colà,le cova senza mai venire a terra. fine, con un buon vento e con la benedizione di Allah, iniziammo il viaggio di ritorno ed arrivammo sani e salvi a Bassora. Qui rimasi qualche giorno, poi venni a Baghdad, dove non appena giunto nel mio quartiere e nella mia casa subito fui salutato da familiari e da amici. Durante questo viaggio avevo guadagnato ricchezze senza pari, perciò ne feci partecipi gli orfani e le vedove in segno di ringraziamento per il mio felice ritorno. Quando mi fui sistemato a casa, organizzai feste e conviti, ai quali invitai amici e conoscenti, e cosi continuai a vivere, dimenticando le disgrazie e le sventure passate.
Questo è quanto di più meraviglioso mi accadde durante il mio terzo viaggio e domani, se Allah lo vuole, sarete di nuovo miei ospiti e vi racconterò le avventure del mio quarto viaggio, che sono ancora più meravigliose di quelle che avete già udito.
Poi Sindbad il Marinaio ordinò che fossero dati a Sindbad il Facchino cento dinàr d'oro e che venisse portata in tavola la cena. Tutti mangiarono e bevvero a sazietà e alla fine Sindbad il Facchino se ne tornò a casa, ringraziando l'ospite per la sua cortesia. Il giorno dopo, appena si levò il sole, Sindbad il Facchino si alzò, recitò la preghiera del mattino e tornò a casa di Sindbad il Marinaio, il quale lo accolse amichevolmente e lo fece sedere accanto a sé. Quando tutti gli altri ospiti furono arrivati, Sindbad il Marinaio ordinò che venissero portati cibi e bevande. E dopo che tutti si furono rifocillati, cominciò a parlare raccontando le vicende del
Quarto viaggio di Sindbad il Marinaio
Sappiate, fratelli miei, che dopo qualche tempo che vivevo in pace e sereno godendomi l'agiatezza fui visitato da una compagnia di mercanti, i quali s'intrattennero con me parlando di viaggi e di traffici. Allora il vecchio demone ch'era dentro di me cominciò ad agitarsi ed io tornai a desiderare di conoscere paesi stranieri, di commerciare e far quattrini. Decisi allora di unirmi alla compagnia di quelle persone e, dopo aver comprato quanto poteva occorrere per un lungo viaggio, nonché grandi scorte dì merci preziose, mi recai a Bassora, dove m'imbarcai su una nave con quei mercanti che erano fra i maggiori della città.
Confidando nell'aiuto di Allah Onnipotente, col favore dei venti propizi e di un mare tranquillo, navigammo nelle migliori condizioni da un'isola all'altra e da un mare all'altro, fino a che un giorno si levò un forte vento contrario che costrinse il capitano a gettare le ancore e a mettere la nave in panna per timore che potesse affondare in mezzo all'oceano. Noi tutti allora ci gettammo a terra e cominciammo a pregare l'Onnipotente, 'e mentre eravamo così occupati arrivò un colpo di vento più forte degli altri, che stracciò le vele in mille pezzi, ruppe la gomena dell'ancora e la nave affondò con tutto il suo carico, mentre noi ci trovavamo in balia delle onde. Come Dio volle, a un certo momento riuscii ad afferrare una tavola e insieme con me altri naufraghi e cominciammo a sbattere i piedi nell'acqua usandoli a mo' di remi. Poi la tempesta si placò e noi vagammo sul mare immenso per tutto quel giorno e per la notte seguente. Al mattino i venti cominciarono.di nuovo a soffiare e le onde a ingrossarsi, sì che alla fine fummo gettati sfiniti ed affamati su un'isola. Ci mettemmo a camminare lungo la spiaggia e trovammo grande abbondanza di erbe, e, in mancanza di meglio, le mangiammo per poterci ristorare e per tenerci in piedi. Dopo aver molto errato su quell'isola, scorgemmo in lontananza una casa. Ci avvicinammo ed ecco che dalla casa uscirono degli uomini nudi i quali, senza nemmeno salutarci e senza dire una parola, ci presero e ci portarono dal loro re. Questi, a cenni ci ordinò di sedere, quindi ci fece mettere davanti dei cibi che non avevamo mai visto in vita nostra. I miei compagni, spinti dalla fame, ne mangiarono ma io, sentendomi rivoltare lo stomaco, non volli toccarli, e fu questa una grazia d'Allah, perché dal fatto di non aver toccato quei cibi dipese la salvezza della mia vita. Infatti i miei compagni, non appena ebbero assaggiato quelle vivande, smarrirono la ragione, si comportarono come tanti stralunati e cominciarono a divorare il cibo come uomini posseduti da uno spirito maligno. Poi quei selvaggi diedero da bere ai miei compagni olio di noce di cocco e con lo stesso olio li unsero su tutto il corpo. E non appena i miei compagni ebbero bevuto di quell'olio strabuzzarono gli occhi e ricominciarono a mangiare come forsennati anche se non ne avevano voglia.
Quando vidi ciò rimasi perplesso e mi preoccupai per i miei compagni; ma mi preoccupai anche per me stesso, a causa di quegli uomini nudi. Così mi misi ad osservarli attentamente e non mi ci volle molto per scoprire che si trattava di una tribù di maghi cannibali, il cui re era un orco. Tutti quelli che avevano la sventura di capitare nel loro paese, essi li acchiappavano e li portavano dal loro re, poi li nutrivano con quei cibi e li ungevano con quell'olio cosi che il loro ventre si dilatava smisuratamente e gli infelici cominciavano a mangiare senza posa e a causa di ciò perdevano la ragione e diventavano come idioti. Allora quei selvaggi ingozzavano i poveretti con quei cibi e con l'olio di cocco fino a che non erano diventati ben grassi, quindi li, sgozzavano e li arrostivano dandoli da mangiare al loro re. Gli altri, voglio dire gli altri selvaggi, si contentavano di mangiare la carne umana cruda. Quando ebbi fatto questa scoperta, mi sentii pieno di tristezza e di timore per la mia sorte e per quella dei miei compagni, tanto più in quanto vedevo, che la loro ragione vacillava e li abbandonava a mano a mano che essi ingrassavano, al punto che a forza di mangiare si abbrutirono completamente; e allora i selvaggi li affidarono a una specie di pastore, che ogni giorno li portava nei prati dove essi pascolavano come bestie. Quanto a me, mentre i miei compagni ingrassavano, io ero dimagrito per la fame e per la paura, la carne mi si era seccata sulle ossa ed ero diventato simile ad uno scheletro. Così nessuno si curò più di me e alla fine mi dimenticarono completamente. Approfittai quindi del fatto che nessuno mi prestava più attenzione e un giorno mi decisi a fuggire, poiché la vista dei miei compagni, diventati mentecatti e grassi come porci, mi era insostenibile. Camminai giorni e giorni nutrendomi di qualche erba che trovavo, fino, a che una mattina giunsi in vista di un gruppo di persone intente a raccogliere grani di pepe. Non appena costoro mi videro, mi si fecero incontro e mi chiesero chi fossi. " Sappiate, brava gente, " risposi io, " che sono un povero straniero. " E raccontai loro la brutta avventura vissuta presso quei selvaggi. Allora costoro fecero le più grandi meraviglie e mi dissero: " Per Allah, quello che tu dici è meraviglioso! Ma come hai fatto a sfuggire a quei cannibali che infestano l'isola e divorano tutti quelli che cadono in loro potere? " Quando ebbi finito di raccontare loro tutti i particolari della mia avventura, essi. mi rifocillarono con buoni cibi, mi fecero riposare, quindi scendemmo sulla riva del mare, c'imbarcammo su una nave che era colà in attesa e arrivammo alla loro isola, dove mi condussero immediatamente dal loro sovrano. Questi mi accolse con molto onore, rispose affabilmente al mio saluto e volle sapere ogni particolare della mia avventura. Quando lo ebbi informato di tutto quello che mi era successo fin dal giorno in cui avevo lasciato Baghdad, egli espresse grande meraviglia per tante vicissitudini, poi ordinò che mi si portasse cibo a sufficienza ed abiti ed ogni cosa di cui potessi aver bisogno. Così mi rallegrai per la mia buona sorte e ringraziai la clemenza dell'Onnipotente. Poi cominciai ad andare in giro per la città, che trovai ricca e prospera, piena di mercanzie e di mercati dove si comprava e si vendeva. Trascorsi in tal modo qualche tempo fra la gente di quella città, amato e stimato da tutti, al punto da diventare uno degli uomini più onorati di quel regno. Ora, mentre trascorrevo così i miei giorni, notai che la maggior parte della gente di quel posto cavalcava bellissimi destrieri, ma li cavalcava a pelo e senza sella. Allora, meravigliato, chiesi al re: " Perché, signor mio, non cavalchi con una sella? E più comoda e dà maggior forza al cavaliere. " E il re mi disse: " Una sella? E che cosa è mai? Io non l'ho mai vista in vita mia né l'ho mai usata per cavalcare. " Allora io gli dissi: " Se tu permetti, signore, io ti costruirò una sella, e tu potrai constatare quanto è più comodo ed agevole cavalcare con essa. " " Fa' pure, " mi disse il sovrano. Allora io gli chiesi di farmi dare del legno, del cuoio e della lana, poi cercai un abile carpentiere e gli ordinai di prepararmi con quel legno un arcione dopo avergliene fatto il disegno. Poi mi feci portare la lana, la cardai e ne feci un bel feltro di sottosella; poi, quando l'arcione fu pronto, vi adattai sotto il feltro e con il cuoio feci dei bei quartieri, delle cinghie e degli staffili. Alla fine chiamai un fabbro ferraio e mi feci fare due belle staffe. Quando tutto fu pronto, mi recai nelle stalle del re, scelsi il miglior cavallo e gli posi addosso la sella, quindi mi recai dal sovrano, il quale mi ringraziò, montò a cavallo e rimase assai contento di quella sella, sì che mi compensò generosamente per il lavoro che avevo fatto. Quando il visir di quel re vide la sella, mi chiese di fame una anche per lui. Poi, a mano a mano, tutti i grandi del regno, e gli ufficiali, e infine anche la gente comune vennero a chiedermi di fabbricar loro delle selle. Così:, con l'aiuto del carpentiere e del fabbro, mi dedicai a questa industria e in breve, tempo ammassai una considerevole fortuna, il che aumentò grandemente la stima da cui ero circondato e m'innalzò nel favore del re. Ora avvenne che un giorno questo re mi mandò a chiamare e mi disse: " Tu ormai vivi presso di noi e sei diventato come uno di noi, e ci sei caro come un fratello. Ed è tanto l'affetto e la considerazione che abbiamo per te che non sopporteremmo di vederti partire; però io voglio da te una cosa alla quale dovrai ubbidire senza contraddirmi. " lo risposi:'" 0 re, che cosa vuoi da me? Chiedilo, e ti assicuro che io non ti contraddirò in nulla, perché tale è il debito di riconoscenza che ho verso di te che io sono diventato come un tuo servo. " Egli disse: " Ho pensato di sposarti ad una donna che è giovane, bella, intelligente come nessun'altra, ed è tanto ricca quanto è bella; voglio che tu la sposi e prendi così stabile domicilio presso di noi, ed anzi voglio che tu vada ad abitare in uno dei miei palazzi. Perciò ti prego di non contraddirmi in questo mio desiderio. " Quando ebbi udito queste parole, rimasi vergognoso e confuso per tanta generosità e non seppi fare altro che inginocchiarmi e baciare la terra davanti a lui. Allora il re, senza porre indugio, chiamò il cadì e i testimoni e volle che fosse steso il mio contratto di nozze con una fanciulla appartenente a una famiglia fra le più nobili del reame; e costei era non solo di meravigliosa bellezza e di alto lignaggio, ma padrona anche di poderi e immobili. Poi il re mi regalò una grande e bella casa con schiavi e servi e mi assegnò un ricco appannaggio. Così io mi reputai il più fortunato degli uomini, anche perché, dopo aver conosciuto mia moglie, l'amai col più tenero amore e fui da essa ricambiato. E cominciammo a trascorrere i nostri giorni fra ogni agio e felicità. Ed io andavo spesso dicendomi: " Se mai tornerò in patria, la porterò con me. " Ma quello che il destino riserva all'uomo è ineluttabile, e nessuno sa ciò che gli può accadere.
Mentre i miei giorni trascorrevano così sereni e lieti, Allah Onnipotente decretò la morte della moglie di un mio vicino. Poiché questi era un mio amico, io mi recai a casa sua e lo trovai abbattuto e depresso; dopo avergli fatto le mie condoglianze, cercai di consolarlo dicendogli: " Non affliggerti per colei che è nella grazia di Allah; sicuramente Iddio ti darà una moglie migliore,in cambio di questa, e, se Allah vuole, il tuo nome continuerà ad essere onorato finché tu vivrai, lungamente, su questa terra! " Ma a queste parole il vicino si mise a piangere ancor più amaramente e mi rispose: " Amico mio, come posso sposare un'altra donna, e come può Allah darmi una moglie migliore di quella che ho avuto se mi resta appena un giorno da vivere? " " Fratello mio, " gli dissi, " ritorna in te e smettila di preannunciare la tua morte, perché tu sei sano e stai in ottima salute. " " Amico mio, " continuò quello, " ti giuro che domani io morirò e tu mi rivedrai solo nel giorno della resurrezione. " Allora io gli dissi: " Ma si può sapere di che cosa stai parlando? " E quello mi rispose: " Oggi stesso seppelliranno mia moglie e seppelliranno anche me insieme con lei, perché è usanza di questo paese seppellire vivo il marito con la moglie se questa muore prima, e lo stesso fanno con la moglie nel caso che a morire prima sia il marito; e ciò si fa affinché nessuno possa godersi la vita dopo la morte del suo compagno. " " Per Allah, " esclamai io, " questa è una usanza fra le più barbare e insopportabili che abbia mai conosciuto! "
Mentre così discorrevamo, ecco che arrivò una gran folla di gente e tutti cominciarono a condolersi con il mio amico per la moglie e per lui stesso. Poi misero la moglie in una bara e la portarono, insieme con il marito, fuori della città, fino a che giunsero in un luogo dove era l'imboccatura di una profonda caverna, chiusa con un grosso macigno. Tolsero il macigno dalla bocca della caverna e gettarono di sotto la bara con la defunta; poi legarono una corda, fatta con fibre di palma, alle ascelle del mio amico e lo calarono in fondo alla caverna, e quando questi fu giunto sul fondo si sciolse da sé la corda e quelli la ritirarono. Infine gli calarono giù una giara d'acqua e un po' di cibo a mo' di viatico. Poi chiusero la bocca della caverna con il macigno e tornarono in città lasciando il mio amico con la moglie morta.
Quando vidi ciò mi dissi: " Per Allah, questa usanza è peggiore della morte che manda Iddio! " Così mi recai subito dal re e gli dissi: " Signore, perché seppellite insieme il vivo e il morto? " Ed egli mi rispose: " E questa una usanza che vige fra noi da tempo immemorabile. Così hanno sempre fatto i nostri antenati! " Allora io gli chiesi: " Dimmi una cosa, o re del nostro tempo. Se la moglie di uno straniero muore fra voi, seppellite vivo anche lo straniero? " E il re mi rispose: " Senza alcun dubbio; chiunque si trovi sulle nostre terre, deve sottostare alle nostre usanze. " Quando ebbi udito queste parole, la vescica del fiele fu lì per scoppiarmi dalla preoccupazione e dalla tristezza. Mi sentii pieno di angoscia, al punto da perdere quasi la ragione, e cominciai a temere che mia moglie morisse prima di me e mi seppellissero vivo. Tuttavia. dopo un po' di tempo ripresi animo consolandomi col pensiero che forse sarei morto prima io, dal momento che nessuno sa chi dovrà morire per primo. Infine, le occupazioni della vita di ogni giorno mi distrassero e non pensai più a questa faccenda.
Tuttavia non trascorse molto tempo e un giorno mia moglie si ammalò e dopo qualche poco morì. Allora il re e quasi tutti gli abitanti di quella città vennero a casa mia a condolersi con me e con la famiglia di mia moglie e molti cercarono di consolarmi per la sorte che mi attendeva. Poi vennero le donne che lavano i cadaveri e lavarono ed abbigliarono mia moglie e le misero indosso le vesti e i gioielli più preziosi, quindi la deposero nella bara e la portarono nel luogo che ho detto, dove scoprirono l'imboccatura della caverna. Quando ebbero buttato la bara in fondo alla caverna, i parenti di mia moglie e i miei amici mi si fecero intorno cercando di consolarmi per la mia morte. Ma io continuavo a gridare: " Nel nome di Allah Onnipotente, come è possibile che sia sancito dalle leggi seppellire il vivo con il morto? Io sono straniero, non sono del vostro paese, e non posso sottostare alle vostre usanze. Se avessi saputo questa cosa, non mi sarei sposato con una delle vostre donne! " Ma quelli non prestarono attenzione alle mie parole. Mi presero, mi legarono una fune sotto le ascelle e mi calarono in fondo alla grotta, insieme con un'anfora d'acqua e un po' di cibo, secondo l'usanza. Quando ebbi toccato il fondo, dall'alto mi dissero di sciogliere la fune, ma io mi rifiutai di farlo, e allora quelli gettarono di sotto l'altro capo della fune, poi chiusero l'imboccatura della caverna e se ne andarono per i fatti loro.
lo mi guardai intorno e vidi che mi trovavo in un'ampia caverna, piena di scheletri e di cadaveri che esalavano un puzzo ammorbante mentre l'aria risuonava dei gemiti dei moribondi. Allora non potei fare altro che biasimarmi per quello che avevo fatto dicendo: ",Per Allah, io merito tutto ciò che mi è capitato e ciò che mi capiterà! Quale maledizione mi ha indotto a prendere moglie in questa città? Non vi è forza né potenza se non in Allah, il Glorioso, il Grande! Come ho detto tante volte, sono sfuggito da un pericolo per cadere in un pericolo peggiore. Per Allah, questa è davvero una morte abominevole! Volesse il cielo ch'io potessi morire una morte onorevole, degna di un uomo e di un musulmano. Sarebbe stato meglio se fossi morto in mare o perito fra le montagne! Meglio assai sarebbe stato che non finire in un modo così miserando! " E continuai a gemere e a lamentarmi per la mia sorte, poi mi gettai a terra, sulle ossa dei morti, implorando l'aiuto di Allah, fino a che i morsi della fame non mi attanagliarono lo stomaco e la sete mi bruciò la gola. Allora mi alzai e a tastoni cercai il pane e ne presi un morso; poi bevvi una sorsata d'acqua. Il giorno dopo cominciai ad esplorare quella caverna e vidi che si estendeva in ogni direzione con una grande quantità di cunicoli e che dovunque era cosparsa di ossa di morti o di corpi in putrefazione. Alla fine trovai una nicchia. nella quale mi rifugiai, un po' lontano dai cadaveri che erano stati gettati più recenti.
Rimasi cosi parecchi giorni, fino a che le mie provviste cominciarono a scarseggiare. Eppure mangiavo solo una volta al giorno e talvolta anche ogni due giorni e bevevo il meno possibile, per paura che l'acqua e il cibo mi venissero meno prima ch'io morissi. Un giorno, che me ne stavo così a riflettere sui miei tristi casi e a chiedermi come avrei fatto quando il pane e l'acqua mi fossero venuti meno, ecco che il macigno che copriva l'imboccatura della caverna venne rimosso e la luce piovve su di me. Allora mi dissi: " Che cosa sarà mai? Forse hanno portato un altro cadavere. " E di fatti vidi che di lì a poco calarono giù un uomo morto, e poi una donna viva, la quale piangeva e si lamentava; e calarono giù anche una provvista, più abbondante; del solito, di pane e di acqua. La donna non mi vide e quelli di sopra chiusero l'apertura della grotta e se ne andarono. Allora, impugnata a mo' di mazza la tibia d'un morto, mi avvicinai di soppiatto alla donna e la colpii sul capo. Quella gettò appena un breve grido e cadde svenuta; la colpii una seconda e una terza volta fino a che morì; allora m'impadronii del suo pane e della sua acqua e frugandole addosso mi accorsi che era carica di gioielli e di monili d'oro, perché era abitudine di quella gente seppellire le donne con tutte le loro gioie. Portai i viveri nel mio cantuccio e mi cibai con quelli prendendone solo quel tanto che era necessario per mantenermi in vita, perché temevo che se fossero finiti troppo presto sarei morto di fame e di sete. Tuttavia non persi mai la fiducia nell'Onnipotente Allah. Rimasi così in quella caverna per molto tempo, uccidendo tutti gli esseri viventi che vi venivano calati e nutrendomi con le loro provviste, fino a che un giorno, mentre dormivo, fui svegliato da uno strano rumore, come di qualcuno che frugasse fra i cadaveri in un angolo della caverna. " Che cosa sarà mai? " mi dissi. Balzai in piedi e, afferrata la tibia, mi avvicinai al punto da cui veniva il rumore. Non appena la creatura che aveva provocato quel rumore si accorse di me, fuggì via verso la parte interna della grotta, e allora capii che si trattava di un animale selvatico. Mi inoltrai anch'io verso l'estremità dell'antro, fino a che vidi lontano un punto luminoso, non più grande di una stella, che appariva e spariva. Continuai a camminare e, a mano a mano che avanzavo, il punto diventava sempre più grande e più luminoso, fino a che fui sicuro che si trattava di un'apertura nella roccia che conduceva all'aperto; allora mi dissi: " Senza dubbio ci deve essere una ragione per questa apertura:, o è la bocca di una seconda caverna, simile a quella nella quale sono stato calato, oppure è una fessura naturale della roccia," Quando arrivai al punto da cui proveniva la luce mi accorsi che si trattava di una breccia nel fianco della montagna, che gli animali selvatici avevano allargato scavando in modo da potere entrare e uscire liberamente e divorare i cadaveri. Quando vidi tutto questo, l'animo mio si rallegrò, mi tornò la speranza e fui certo di poter sopravvivere. Così, come in sogno, allargai quella breccia in modo da poterci passare e uscii all'aperto, trovandomi sul pendio di un'alta montagna che guardava il mare e che da quella parte impediva ogni accesso all'isola, così che da quel punto della costa era impossibile raggiungere la città.
Lodai Iddio e lo ringraziai rallegrandomi immensamente per la mia salvezza. Poi, attraverso quel buco, ritornai nella grotta e portai fuori tutte le provviste che avevo messo da parte e presi anche alcuni vestiti dei morti; dopo di che raccolsi le collane di perle, e i gioielli e i monili d'oro e d'argento e ogni altro ornamento di valore che potei - trovare sui cadaveri; usai le vesti dei cadaveri per fare dei fagotti e portai tutta questa roba fuori, sul fianco della montagna, davanti al mare, dove mi stabilii alla bell'e meglio intendendo aspettare colà fino a quando l'Onnipotente si fosse degnato inviarmi un aiuto sotto forma di una nave di passaggio. Ogni giorno tornavo nella caverna. e quando trovavo degli esseri viventi seppelliti vivi colà, li uccidevo, uomini o donne che fossero, mi impadronivo del loro cibo e dei loro gioielli, che trasportavo nel mio covo a picco sul mare.
Rimasi in quel posto parecchio tempo, continuando sempre a riflettere sui miei casi, fino a che un giorno vidi in mezzo al mare una nave di passaggio. Presi allora un pezzo di stoffa bianca che avevo con me, la legai a un bastone e mi misi a correre su e giù facendo dei segnali e gridando, fino a che l'equipaggio della nave, udendo le mie grida, mi scorse e mandò a terra una barca a prendermi. Quando la barca fu vicina alla riva, i marinai mi chiamarono dicendo: " Chi sei tu, e come mai sei arrivato su questa montagna dove in vita nostra non abbiamo mai visto alcuno? " lo risposi: " Sono un onesto mercante che ha fatto naufragio, ma mi sono salvato e ho salvato con me una parte dei miei averi aggrappandomi a un relitto della nave; con la benedizione di Allah e grazie alla mia forza e alla mia abilità, ho preso terra in questo luogo, dove sono rimasto ad aspettare che qualche nave di passaggio si accorgesse di me e mi prendesse a bordo. " Allora quelli mi fecero salire sulla barca insieme con i miei fagotti di gioielli e di preziosi e tornarono verso la nave, dove il capitano mi disse: " Come mai un uomo si trovava in quel luogo, su quella montagna, dietro la quale sorge una grande città? Per tutta la vita non ho fatto altro che navigare questi mari e sono passato e ripassato più volte davanti a quelle rocce, eppure non vi ho mai visto alcun essere vivente, fatta eccezione per gli animali selvatici e gli uccelli. " Io gli ripetei la storia che avevo già raccontato ai marinai, ma non gli dissi nulla di quello che mi era capitato nella città e nella caverna per timore che sulla nave vi fosse qualche isolano. Presi quindi alcune delle perle migliori che avevo con me e le offrii al capitano dicendo: " Signore, tu mi hai tratto in salvo da quella montagna. lo non ho con me denaro contante, ma ti prego di accettare queste in segno di gratitudine per la tua gentilezza. " Ma il capitano rifiutò di accettare alcunché da me dicendo: " Quando troviamo un naufrago sulla costa o su un'isola lo prendiamo a bordo e gli diamo da mangiare e da bere, e se è nudo lo rivestiamo; ma non accettiamo niente da lui, anzi, quando raggiungiamo un porto sicuro, lo facciamo scendere a terra regalandogli un po' del nostro denaro e lo trattiamo gentilmente e caritatevolmente per l'amore di Allah Altissimo. " Allora io pregai perché la sua vita fosse lunga e felice e mi rallegrai dello scampato pericolo, perché ogni volta che pensavo al momento in cui ero stato calato nella grotta insieme con mia moglie morta non potevo fare a meno di rabbrividire d'orrore.
Continuammo in tal modo il nostro viaggio, navigando da isola a isola e da mare a mare, fino a che, come volle Allah, arrivammo sani e salvi nella città di Bassora, dove io mi trattenni qualche giorno e proseguii poi per Baghdad. Qui, con grandissimo piacere, ritrovai il mio quartiere e la mia casa e fui subito circondato da familiari e da amici che si rallegrarono con me per la mia salvezza. Rinchiusi nelle mie casse tutto ciò che avevo portato con me, diedi elemosine ai poveri e rivestii le vedove e gli orfani. Poi pensai a godermi la vita tranquillamente. Queste furono le avventure più interessanti del mio quarto viaggio. Ma domani, se vorrete tornare tutti a casa mia, vi racconterò quello che mi accadde nel quinto viaggio, e vi assicuro che si trattò di casi più incredibili e meravigliosi di quelli che avete ascoltato finora.
Dopo di che Sindbad ordinò che venisse servita la cena, e quando tutti ebbero mangiato e bevuto,fece dare, come al solito, cento dinàr a Sindbad il Facchino e tutti se ne andarono per i fatti loro continuando a meravigliarsi di ciò che avevano udito.
Non appena sorse il giorno, Sindbad il Facchino si levò, recitò la preghiera del mattino e si presentò a casa di Sindbad il Marinaio, il quale lo accolse cortesemente e lo fece sedere accanto a sé, fino a che non arrivarono tutti gli altri invitati. Mangiarono, bevvero e chiacchierarono allegramente; quindi il loro ospite cominciò il racconto del
Quinto viaggio di Sindbad il Marinaio
Sappiate, fratelli miei, che dopo essere rimasto per qualche tempo a terra e dopo aver dimenticato, fra gli agi e il benessere, i pericoli e i patimenti sopportati, il mio cattivo genio mi ispirò ancora una volta il desiderio di viaggiare e di vedere isole e paesi stranieri. Perciò, dopo avere acquistato una grande quantità di mercanzie adatte allo scopo e averle fatte imballare, mi trasferii a Bassora dove, nel porto di quella città, vidi una bella nave, nuova di zecca, con tutte le attrezzature in ordine e pronta a prendere il mare. Poiché la nave mi piacque la comprai, vi feci imbarcare le mie merci, reclutai un capitano e una ciurma e feci salire a bordo alcuni miei servi in qualità di ispettori. Presi anche a bordo alcuni mercanti con le loro mercanzie ed essi mi pagarono in denaro sonante il prezzo del passaggio; dopo di che, partimmo tutti felici e contenti augurandoci un viaggio sicuro e buoni guadagni.
Navigammo da un paese all'altro e da un'isola all'altra e da un mare all'altro, visitando le città e le regioni che toccavamo, vendendo e comperando, fino a che un giorno giungemmo ad una grande isola disabitata, un luogo deserto e desolato nel quale scorgemmo una grossa cupola bianca semisepolta nella sabbia. I mercanti scesero a terra per esaminare quella cupola e io rimasi a bordo; quando essi furono vicini si accorsero che si trattava di un uovo del grande uccello Rukh. Cominciarono a picchiarci sopra con delle pietre, perché ancora non sapevano di che cosa si trattasse, e in breve riuscirono a romperlo e ne uscì subito una grande quantità d'acqua e poi all'interno apparve il pulcino del Rukh. Allora essi lo tirarono fuori, lo sgozzarono e misero da parte una grande quantità di carne. lo intanto ero sulla nave e non sapevo quello che stessero facendo, fino a che uno dei passeggeri non venne a riva e mi disse: " Signore, vieni a vedere l'uovo, che pensavamo fosse una cupola. " Allora aguzzai gli occhi e, vedendo i mercanti che stavano picchiando sull'uovo con delle pietre, gridai loro: " Fermatevi, fermatevi! Lasciate stare quell'uovo, altrimenti l'uccello Rukh ci piomberà addosso, distruggerà la nostra nave e ci ucciderà." Ma quelli non mi prestarono attenzione e continuarono a picchiare sull'uovo; ed ecco allora che l'aria si fece buia e il sole si oscurò, come se fosse stato nascosto da qualche grossa nuvola di passaggio. Alzammo gli occhi al cielo e vedemmo che non si trattava di una nuvola, ma dell'uccello Rukh che volava tra noi e il sole.
Quando arrivò sull'isola e vide l'uovo rotto, gettò un alto grido, e subito accorse la sua compagna, e tutti e due cominciarono a volteggiare sulla nave emettendo grida sempre più alte. Allora io dissi al capitano e alla ciurma: " Presto, prendiamo il mare, cerchiamo di salvarci fuggendo, prima che quegli uccelli ci uccidano. " Così i mercanti corsero a bordo e noi levammo in tutta fretta le ancore cercando di guadagnare il mare aperto. Quando i due Rukh videro questo, si allontanarono in volo e noi spiegammo al vento tutte le vele, sperando di potere uscire dal loro paese; ma ecco che i due uccelli riapparvero di nuovo e si misero a volare sopra di noi, e allora vedemmo che ciascuno di essi portava fra gli artigli un enorme macigno che erano andati a raccogliere fra le montagne. Non appena il Rukh maschio fu giunto sulla nostra verticale, lasciò cadere il suo macigno, ma il capitano della nave, con una brusca virata, riuscì ad evitare di stretta misura il proiettile che cadde in acqua con tale violenza che la nostra nave venne quasi proiettata fuori dei mare e il macigno affondò lasciandoci vedere il fondo dell'oceano. Allora il Rukh femmina mollò il suo masso, che era più grande di quello del maschio, e poiché il destino aveva decretato così, il proiettile cadde sulla poppa della nave frantumandola e il timone volò in mille pezzi; a cagione di ciò la nave andò a fondo, trascinando con sé nel mare tutto ciò che vi era a bordo. Quanto a me, lottai cercando di rimanere a galla, fino a che Allah Onnipotente non mi mise fra le mani una tavola della nave, sulla quale salii a cavalcioni, e cominciai a navigare aiutandomi con i piedi che usavo a mo' di remo.
Ora, la nave era affondata vicino ad un'isola, in mezzo all'oceano, e i venti e le onde, col permesso dell'Altissimo, mi gettarono, quando ormai ero allo stremo, sulle spiagge di quell'isola. Colui che approdò su quelle rive era più un cadavere ambulante che un uomo vivo; mi gettai a terra sfinito e rimasi così disteso fino a che non ebbi riacquistato un po' di forze. Poi mi alzai e cominciai a girare per l'isola e mi accorsi che era simile ai giardini del paradiso. Vi erano alberi lussureggianti carichi di frutta matura, ruscelli dall'acqua chiara e cristallina, fiori bellissimi e profumati e uccelli in quantità che, cinguettando, cantavano le lodi di Colui che è Onnipotente ed Eterno. Mangiai quella frutta e bevvi l'acqua dei ruscelli fino a che non ebbi soddisfatta la fame e placata la sete, dopo di che mi sedetti ringraziando l'altissimo e lodando la Sua misericordia. Calò la sera e ancora non avevo udito voci né visto esseri umani. Stroncato dalla paura e dalla fatica, dormii come un sasso per tutta la notte e al mattino mi alzai e ricominciai a camminare fra gli alberi. Alla fine arrivai in un posto dove c'era una noria, nei pressi di un ruscello e accanto a questa noria vidi seduto un vecchio dall'aspetto venerabile, il quale portava intorno ai fianchi un gonnellino fatto con foglie di palma. " Forse. " pensai, " questo sceicco è scampato anch'egli ad un naufragio ed è capitato per caso sull'isola. " Così mi avvicinai e lo salutai, ed egli mi restituì il saluto, ma esprimendosi con i gesti e senza dire una parola; allora gli dissi: " Nonno, perché stai seduto qui? " Lui scosse la testa mugolando e fece dei cenni con le mani come per dire: " Prendimi sulle spalle e portami dall'altra parte del ruscello. " Pensai che mi conveniva essere gentile con quel vecchio, il quale forse poteva essere paralitico, e allora l'aiutarlo mi avrebbe fruttato una ricompensa in cielo. Così lo presi sulle spalle, lo portai nel luogo che mi aveva indicato e gli dissi: " Adesso puoi scendere. " Ma quello non solo non volle. scendere, ma anzi mi strinse le gambe intorno al collo, e allora mi accorsi che le aveva nere e rugose come la pelle del bufalo. A veder ciò cominciai a preoccuparmi e cercai di scuotermi di dosso quel vecchio. Ma più lo scuotevo e più quello mi serrava il collo con le gambe, fino a che cominciai a vedere tutto nero. mi sentii soffocare e caddi a terra privo di sensi. Non per questo il vecchio mollò la presa; cominciò invece a picchiarmi sulle spalle e sulla schiena con quelle sue gambe che erano dure e facevano male come un nerbo di palma. Per sottrarmi a tanto dolore fui costretto ad alzarmi di nuovo e allora il vecchio mi accennò con la mano che lo portassi vicino agli alberi che avevano i frutti migliori, e se non ubbidivo o ero lento a obbedire, quello mi picchiava con i piedi facendomi più male che se mi avesse frustato. Tenendolo sempre così sulle spalle, dovevo correre a destra e a sinistra, dovunque egli mi accennasse, e insomma ero come un suo schiavo. Il vecchio non smontava mai dalle mie spalle, sulle quali orinava e faceva tutti i suoi bisogni. Quando voleva dormire mi stringeva forte le gambe intorno al collo e si addormentava per un poco; poi, appena sveglio, cominciava a darmi grandi colpi sulla schiena, e allora io dovevo alzarmi subito e cominciare a trasportarlo di qua e di là. lo non osavo contraddirlo per timore di essere picchiato, ma mi pentivo amaramente di avere avuto compassione di lui e non facevo che ripetermi: " Ho cercato di far del bene a quest'uomo e sono stato ripagato con il male; per Allah, in vita mia non renderò mai più un servizio a un uomo! " Un giorno che me ne andavo in giro per l'isola, sempre con quell'accidente sulle spalle, capitai in un luogo pieno di zucche, alcune delle quali erano secche. Raccolsi la più grande delle zucche secche, la vuotai per bene, quindi da una vite colsi dei grappoli d'uva, li spremetti fino a riempirne la zucca, che richiusi e lasciai al sole per qualche giorno fino a che il succo diventò un vino fortissimo. Presi l'abitudine di bere quel vino che mi sosteneva e mi aiutava a sopportare la fatica e spesso, quando ero un po' ebbro, dimenticavo i miei guai e mi sembrava quasi di essere felice.
Un giorno il vecchio, vedendomi bere a quella zucca, mi chiese a cenni che cosa fosse. " Questo " dissi io " è un eccellente cordiale che rallegra il cuore e anima lo spirito. " Così, essendo un po' brillo per il vino bevuto, cominciai a correre e a ballare fra gli alberi, battendo le mani e cantando, mentre il vecchio mi stava sempre a cavalcioni sulle spalle. Quando ebbe visto gli effetti di quella bevanda, il vecchio mi fece cenno che voleva bere anche lui, e io, per timore dei suoi colpi, gli passai la zucca. Gli piacque tanto che si scolò tutta la zucca; ma il vino gli diede alla testa e cominciò a dimenarsi sulle mie spalle battendo le mani e agitandosi tutto, fino a che sentii che i muscoli delle sue membra si rilassavano ed egli cominciava a vacillare. Quando mi accorsi che era completamente ubriaco, scostai le gambe che teneva strette intorno al mio collo e lo gettai a terra, Poi afferrai una grossa pietra che trovai vicino a un albero e con quella lo colpii più volte sulla testa, finché non gli ebbi schiacciato il cranio e la carne e il sangue formarono un'unica poltiglia. Così mori quel vecchiaccio; che Allah non abbia misericordia di lui!
Rimasi parecchi giorni su quell'isola con il cuore più tranquillo, mangiando frutti e bevendo l'acqua dei ruscelli, e non perdendo mai di vista il mare, sul quale speravo sempre di vedere apparire, un giorno o l'altro, una nave. E difatti ecco che un bel giorno, mentre me ne stavo sulla spiaggia, vidi un vascello che puntò diritto verso l'isola, e giunto in prossimità della costa gettò l'ancora. I passeggeri scesero subito a terra; io corsi verso di loro e quelli, non appena mi videro, mi si fecero intorno e cominciarono a interrogarmi sui casi miei e sulle ragioni della mia permanenza in quell'isola. Il racconto di tutto quello che mi era capitato li riempì di meraviglia e dissero: " Sappi, o fortunato, che colui il quale ti cavalcava era chiamato lo sceicco al-Bàr, ossia il Vecchio del Mare, e che non v'è uomo sulla faccia della terra che abbia avuto le sue gambe intorno al collo e sia tornato vivo a raccontare l'avventura. Sia dunque lodato Allah per la tua salvezza! " Ciò detto mi offrirono da mangiare e mi diedero delle vesti per coprire le mie nudità; quindi mi portarono con loro sulla nave e navigammo giorni e giorni, notti e notti, fino a che il destino volle condurci in un luogo chiamato la Città delle Scimmie. Le case di questa città erano altissime e tutte affacciate sul mare e vi era una sola porta molto pesante e rinforzata con borchie di ferro.
Ora bisogna sapere che gli abitanti di questa città ogni sera, come sopraggiungeva il crepuscolo, uscivano dalla porta, salivano su barche e navi e passavano la nottata in mare per paura che le scimmie calassero giù dalla montagna. Sentendo questa storia, io mi turbai, perché rammentai quello che io stesso avevo patito per causa delle scimmie. Decisi di scendere a terra per distrarmi visitando la città; ma mentre così facevo la nave su cui ero imbarcato spiegò le vele e partì senza di me. Quando mi accorsi di questo fatto, cominciai a piangere e a lamentarmi, finché un tale del luogo mi si avvicinò e mi disse: " Signore, se non sbaglio tu sei straniero da queste parti. " " Sì, " risposi, " sono straniero ed anche uno straniero sfortunato perché la nave con cui ero arrivato qui è partita mentre io ero in città e mi ha lasciato a terra. " Allora quello mi disse: " Vieni, imbarcati con noi, perché se rimani durante la notte in città le scimmie ti faranno a pezzi. " " Ascolto e obbedisco, " risposi. E m'imbarcai con lui su un battello che venne spinto a circa un miglio dalla costa dove fu ancorato e dove passammo la notte. Allo spuntar del giorno tornarono tutti verso la città, sbarcarono e ognuno se ne andò per i fatti suoi. E questo traffico lo facevano tutte le sere, perché se qualcuno fosse rimasto in città le scimmie gli sarebbero piombate addosso e lo avrebbero sbranato. Non appena si faceva giorno le scimmie se ne andavano e, dopo aver mangiato la frutta nei giardini, tornavano sulle montagne dove dormivano fino al cader della sera, allorché scendevano di nuovo in città.
La città si trovava nella parte estrema del paese dei negri ed una delle cose più strane che mi accaddero durante la mia permanenza colà fu la seguente. Uno di quelli con cui passavo la notte in barca mi chiese: " Signore, se non sbaglio tu sei straniero in questo paese; sai fare qualche mestiere? " E io gli risposi: " Per Allah, fratello mio, io non conosco nessun mestiere, perché al mio paese facevo il mercante e vivevo sul mio: avevo una nave di mia proprietà e magazzini pieni di mercanzie. Purtroppo la nave è affondata in mare ed io mi sono salvato per miracolo grazie alle protezione di Allah! " Allora quello mi diede una bisaccia di cotone dicendomi: " Prendi questa bisaccia, riempila di ciottoli e va' con la gente del posto: io dirò che ti accompagnino e che abbiano cura di te. Fa' come fanno loro e forse col tempo riuscirai a guadagnare quanto basterà per pagarti il viaggio di ritorno in patria. " Ciò detto mi accompagnò sulla riva del mare, dove io riempii la bisaccia di ciottoli; ed ecco che vedemmo uscire dalla città un gruppo di persone, tutte munite di bisacce come la mia. Allora egli mi raccomandò a quella gente dicendo: " Quest'uomo è uno straniero prendetelo con voi e insegnategli come si fa la raccolta, così che egli possa guadagnarsi il pane e voi una ricompensa in cielo. " " Lo faremo per la nostra testa e per i nostri occhi! " risposero quelli, e mi diedero il benvenuto. Quindi mi portarono in un'ampia valle, dove crescevano alberi altissimi dai tronchi così lisci che sarebbe stato impossibile arrampicarvici.
Addormentate per terra c'erano molte scimmie, le quali non appena ci videro fuggirono arrampicandosi sugli alberi; allora i miei compagni cominciarono a tirare addosso alle scimmie i ciottoli che avevano nelle bisacce e le scimmie, per tutta risposta, si diedero a staccare i frutti che erano in cima agli alberi e a scagliarli contro di noi. Guardai bene e vidi che i frutti che le scimmie ci tiravano erano noci indiane o noci di cocco; allora mi scelsi un grande albero pieno di scimmie e cominciai anch'io a tirare sassi mentre le scimmie mi rispondevano gettandomi le noci, che io raccolsi come facevano gli altri; così, ancor prima di aver finito la mia riserva di. sassi, avevo raccolto una grande quantità di noci. Quindi tornammo in città e io mi recai subito dall'uomo che mi aveva presentato ai raccoglitori di noci e gli diedi tutto quello che avevo ringraziandolo per la sua cortesia; ma quello non volle accettare nulla e mi disse: " Vendi queste noci e mettine a frutto il guadagno. " Poi mi diede le chiavi della dispensa e mi disse di riporci le noci che mi rimanevano e mi consigliò di andare ogni giorno a fare la raccolta, di vendere subito le noci meno buone e di mettere da parte le altre; forse così, a suo parere, avrei potuto un giorno avere abbastanza denaro da poter tornare in patria. " Che Allah ti ricompensi! " gli dissi io, e feci come mi aveva detto.
Le cose continuarono così per un bel pezzo, finché mi trovai ad avere immagazzinate molte noci e ad aver guadagnato molto denaro con quelle che avevo venduto. Ora accadde che un giorno una nave entrò nel porto di quella città e i mercanti scesero a terra e cominciarono a comperare e vendere. Allora io mi recai dal mio benefattore e gli dissi di quella nave che era arrivata e che avrei voluto ritornare in patria. " Fa' come credi, " rispose lui. Io lo ringraziai per tutto il bene che mi aveva fatto e presi congedo da lui. Mi accordai con il capitano sul prezzo del passaggio, quindi feci caricare a bordo tutte le mie noci di cocco e quant'altro possedevo.
In quello stesso giorno salpammo le ancore e navigammo di isola in isola e di mare in mare, e dovunque ci fermassimo io vendevo e barattavo le mie noci di cocco e l'Onnipotente mi ripagò di tutto ciò che avevo perduto in precedenza. Fra l'altro giungemmo in un'isola dove abbondavano i chiodi di garofano, il cinnamomo e il pepe; e la gente del posto mi disse che accanto ad ogni pianta di pepe cresce una grande foglia che la ripara dal sole durante la stagione calda e dall'acqua durante la stagione umida; e poi, quando la pioggia è cessata, la foglia avvizzisce e cade a terra accanto alla pianta di pepe. Qui io feci grandi provviste di pepe, di chiodi di garofano e cinnamomo in cambio di noci di cocco; e poi passammo nell'isola di Alusirat, da dove viene il legno di aloe, e di qua ad un'altra isola, distante cinque giorni di viaggio, dove cresce il legno di Cina che è ancor meglio di quello di aloe. Infine giungemmo nelle acque dove si pescano le perle ed io diedi ai pescatori un certo numero di noci di cocco dicendo loro: " Tuffatevi e pescate secondo la mia fortuna! " Ed essi così fecero e portarono su dal profondo del mare molte perle grandi e preziose dicendomi: " Per Allah, padrone, questa sì che si chiama fortuna! ".
Poi spiegammo di nuovo le vele e con la benedizione di Allah (il Suo nome sia sempre esaltato) non cessammo di navigare finché arrivammo felicemente a Bassora. Là mi trattenni qualche giorno quindi proseguii per Baghdad ed entrai nel mio quartiere e ritrovai la mia casa e gli amici e i parenti che si rallegrarono con me. Feci poi l'inventario di tutto ciò che avevo riportato da questo viaggio, distribuii elemosine, beneficai vedove ed orfani e feci dei regali agli amici e ai parenti. Perché il Signore mi aveva ridato ciò che avevo perduto.
Quando ebbe finito di raccontare, Sindbad il Marinaio si volse a Sindbad il Facchino e gli disse: " Ora sai anche tu quante pene e quante traversie mi è costata la presente agiatezza. " Allora Sindbad il Facchino si vergognò e disse: " Signore, non prendertela con me per quello che ho detto. Riconosco che sono stato sciocco e avventato. " Poi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero portati cibi e bevande e tutti mangiarono e bevvero a sazietà intrattenendosi a conversare piacevolmente. Alla fine il padrone di casa ordinò che venissero dati cento dinàr d'oro a Sindbad il Facchino e gli disse: " Tu sei mio amico e questa casa è aperta a te in ogni momento. Se avrai bisogno di qualche cosa, o se ti piacerà di rallegrarci con la tua compagnia, sarai sempre il benvenuto, perché noi siamo come due fratelli. " E così vissero serenamente in grande amicizia, fino a che giunse Colei che cancella le gioie, che divide gli amici, che spopola i palazzi e popola le tombe. Sia lode a Colui che non muore!
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