L'Aquila e il Gufo un dì, fatta la pace e scambiato l'amplesso, l'una giurò, parola di regina, e giurò l'altro in fe' di barbagianni, che non avriano a' danni e alla rovina de' figli loro congiurato mai.
- Conosci i figli miei? - chiese l'uccello caro a Minerva. - Io no.
- Or temo, se distinguerli non sai, che tu ne faccia un dì tristo macello. Voi grandi, per quel poco che ne so, come gli dèi lassù, non state a calcolare il meno e il più, ma fate dei mortali quel conto che si fa degli stivali. Oh sì, povero a me se me li mangi! ... - Amico, orbe', se vuoi che non tocchi una penna a' figli tuoi, me li presenti o fammene il ritratto.
- Davver? subito fatto. Sono uccellini belli e graziosini, che non hanno gli eguali infra gli uccelli. Se tu li vedi, esclami: "Ecco son quelli". In mente ben rimarca questi segnali e fa' che per tuo mezzo non entri in casa mia la trista Parca -.
Non molto tempo andò che il barbagianni babbo diventò, e un dì ch'egli era fuori per la spesa l'Aquila venne, e visto in un oscuro crepaccio d'una grotta, ovver d'un muro (preciso ancor nol so), certi uccellacci di sembianza offesa, goffi, rognosi e cupi e rauchi al canto, - Questi non son del nostro amico i figli, - esclama, - e bene io posso mangiarmeli -. Sì disse, e la grifagna, che non è ne' suoi pasti pitagorica, se li rosicchia tutti fino all'osso.
Quando il Gufo tornò dalla campagna, e non trovò di tutti i figli suoi che l'unghie e i becchi asciutti, le grida disperate al cielo alzò, e contro l'assassin lo sdegno e i fulmini dei numi supplicò.
Ma fuvvi chi gli disse: - O barbagianni, te stesso accusa autor de' tuoi malanni, o il senso natural, che sempre vuole chi ne somiglia render belli e amabili. Meglio per te, se per amor de' tuoi, non avessi gonfiate le parole.